La porta della memoria è sempre socchiusa


the-pillow-book-screenshotCosa possono avere in comune due donne come Sei Shōnagon e Hayashi Fumiko?

Apparentemente niente, vista l’appartenenza a epoche e contesti culturali diversi.
Eppure, entrambe hanno scelto di imprimere su carta le proprie memorie e l’hanno fatto plasmando la materia di scrittura in maniera intima e originale.

Sei Shōnagon (965 ca. – 1025 ca.) visse a Kyōto, presso la corte dell’imperatrice Sadako, dove godette di una certa fama grazie al suo talento poetico.

La sua opera principale è il Makura no sōshi (“Le note del guanciale”), composto da trecentodiciassette sezioni indipendenti. L’opera ha dato l’avvio a un nuovo genere, detto zuihitsu (lett. “lasciar scorrere il pennello”), che comprende annotazioni alla rinfusa, elenchi e impressioni.
In una delle sezioni finali è spiegato il perché del titolo: un giorno, il Secondo Ministro consegnò all’imperatrice una pila di fogli per annotazioni, ma ella, non sapendo che farsene, accettò l’offerta di Sei Shōnagon di ricavarne un guanciale.

La poetessa deve aver passato molte notti distesa sul letto a riempire pagine su pagine di hiragana, ripensando alla giornata appena trascorsa e annotando tutto ciò che le veniva in mente.
Un frammento dopo l’altro, il lettore penetra in un mondo femminile in cui si incastrano perfettamente frivolezza e sensibilità estetica.

Sei Shōnagon scrive per se stessa, pensando di essere la sua unica lettrice, perciò non si preoccupa di nascondere il peggio di sé e proprio per questo non deve aver passato sonni tranquilli dopo che il guanciale di carta le fu sottratto dal Governatore di Ise per poi essere divulgato.

Gli uomini erano affascinati dalla scrittura femminile ed erano anche incuriositi da ciò che le donne pensavano di loro, ma è possibile che non abbiano apprezzato le osservazioni pungenti di Sei, secondo cui molti atteggiamenti maschili rientravano nella lista delle “cose deludenti”, dei “particolari scoraggianti” o delle “cose ingarbugliate e che sgomentano”.

La poetessa, come un’abile pittrice, accosta tinte contrastanti e se si dilunga a descrivere i colori sgargianti delle vesti di corte, subito dopo non dimentica di soffermarsi sul grigiore dell’indifferenza.

 

Hayashi Fumiko (1903 – 1951), a differenza di Sei Shōnagon, sviluppa il suo talento in un ambiente disagiato: figlia illegittima, passa gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza a vagabondare da un paese di provincia all’altro, dato che il patrigno faceva il venditore ambulante.

Nonostante la povertà, la fame e le prospettive limitanti della realtà di provincia, Hayashi non abbandona mai il desiderio di diventare una scrittrice e a diciannove anni si trasferisce a Tōkyō, dove svolge i lavori più disparati e inizia a tenere un diario.

Da questa esperienza nasce Hōrōki (“Diario di una vagabonda”, 1930), che venne pubblicato per la prima volta a puntate sulla rivista femminista Nyonin geijutsu e poi in volume dalla casa editrice Kaizōsha, che non tardò a riconoscere il potere iconografico di questo personaggio femminile che, senza bisogno di insabbiare la propria fragilità, alla fine raggiunge il proprio obiettivo: diventare indipendente in una società in cui la donna aveva cominciato solo da poco a muovere i primi, timidi passi verso una maggiore libertà economica e intellettuale.

Il libro non rientra in un genere letterario ben preciso, ma può essere definito, anche se non in modo esaustivo, come un uta nikki, ovvero un diario poetico.
Al suo interno si alternano prosa e poesia, liste della spesa, scontrini, stralci di canzoni, dialoghi tra la protagonista e le persone incontrate al lavoro o in giro per la capitale.
Il confine tra realtà e finzione è molto labile e probabilmente il fascino di Hōrōki risiede proprio in questa sua aderenza alla vita, con ritmi altalenanti e contraddittori.

L’autocommiserazione non è mai fine a se stessa, perché, nonostante la narrazione sia cosparsa di particolari fittizi, resta il fatto che l’autrice abbia vissuto sulla propria pelle la frustrazione di essere povera, le delusioni d’amore e la solitudine di chi deve arrangiarsi senza lasciarsi sopraffare dal senso di spaesamento.

Spesso le memorie della protagonista la riportano ai tempi trascorsi in provincia (“Suddenly memories of my youth mingled like the scent of the flowers”1), oppure affollano la sua stanza dopo un abbandono (“Countless memories still flooded this room, where for several months I had lived with my former lover. It was suffocating to stay here. As I bent over my desk, I imagined the fresh summer scenery of the outskirts of the city. The intensity of the rain increased. The anguish was unbearable”2).

Sulla precarietà dei rapporti tra le persone scrisse qualcosa anche Sei Shōnagon, nella sezione 167, dedicata alle Cose che dovrebbero essere vicine ma che sono realmente lontane: “Il paradiso. I viaggi per mare. I rapporti umani”3.

Cambiano le priorità, le mode, il peso che si dà ai pettegolezzi, ma restano costanti il ricordo della bellezza di fronte alla natura e delle tracce lasciate da chi si incontra.

 

 

Note:

1, 2: Ericson, Joan E. (1997). Be a Woman: Hayashi Fumiko and Modern Japanese Women’s Literature. Honolulu: University of Hawaii Press. (pp. 149, 158)

3: Sei Shōnagon, Note del guanciale, SE Studio Editoriale s.r.l., Milano.

 

Riferimenti bibliografici:

Paola Scrolavezza, Alle origini della letteratura femminile moderna: Hayashi Fumiko, Atti XXVII Convegno Aistugia, 2003 (355-364).

Paola Scrolavezza, Il testo nomade: Hōrōki di Hayashi Fumiko, Atti XXXI Convegno Aistugia, 2007 (331-344).

Luisa Bienati, Adriana Boscaro, La narrativa giapponese classica, Marsilio, Venezia, 2010, pp. 85-90.

Luisa Bienati, Paola Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, Marsilio, Venezia, 2009, pp. 68-71.

 

Le immagini sono tratte dai film The Pillow Book di Peter Greenaway (1996) e Hōrōki di Mikio Naruse (1962).

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