La fotografia come un cambio di rotta dall’antropizzazione all’immortalità (fra realismo e surrealismo)


Alcuni estetologi consigliano di minimizzare in fotografia il ruolo del soggetto, così da riposizionare il “canale” dall’autorialità alla ricezione (tramite un messaggio concettuale).

Da una logica artistica del “quadro” immortalante, si passerà ad una percezione estetica del “ready-made” esistenziale. Se la ricezione diventa così importante, quella in modo virtuale già appartiene all’universalità d’un gusto per il “bel” riconoscimento d’un soggetto. Nell’insieme, dovrà funzionare un costruttivismo. Una fotografia sarà artistica se permetterà di ri-produrne l’estetizzazione. Il ready-made manco “si preoccupa” più per il fatto che l’autore ha perso l’aura della genialità “privata”. Basta “girare la frittata”, invogliando la contemplazione artistica a servire la percezione estetica dei visitatori al museo!

Il dadaismo ama esibire i frammenti della realtà, senza che quelli “irradino” un concetto. Alla fine, la costruzione dell’Essere appare unicamente artificiale.

(Credits: Paolo Meneghetti)

Fra la realtà ed il concetto, la percezione del lettore rimarrà formativa, indagando per reinterpretazioni l’autorialità iniziale. Il capitalismo moderno vuole sfruttare a proprio vantaggio il costruttivismo estetico, ad esempio incastrandovi un messaggio subliminale, grazie alla pubblicità.

Oppure, più semplicemente l’arte che ha perso l’aura è positiva, perché permette una “rivoluzione” contro i canoni imposti dal rituale ideologico (sullo Spirito Assoluto).

La fotografia sembra il primo “canale” in cui la tecnica riesce a “scatenarsi” esteticamente: nemmeno il tempo di pensare ad un soggetto, che già lo s’immortala! Si tratterà allora di massificare democraticamente, contro l’elitarismo dell’arte al museo? Sono i problemi che interessavano al filosofo Benjamin, e che trovavano la propria applicazione nelle fotografie di Atget, dove le vie parigine apparivano vuote per invitarci a ricercare gli “indizi” del soggetto umano.

Messa così, l’artisticità presuppone un “cambio di rotta”, contro la linearità imposta del canone figurativo. Bisogna letteralmente che si trovi “un altro volto (del soggetto)”, e perfino democraticamente, puntando sull’irripetibilità esistenzialistica dei lettori.

Ogni ripresa di “straniamento” sulla realtà consentirà di riprodurre una “scoperta” sull’Essere. Magari il troppo “perfetto” da vedere diventa pure il sempre “facile” da vendere. Per conoscere davvero qualcosa, converrebbe ricostruirne le “basi” presupposte, ergo “smascherabili”!

Paradossalmente, la fotografia senza i “fronzoli” del soggettivismo meglio favorisce il riconoscimento, nel suo automatismo con la realtà. Quando manca la pretesa della genialità, la partecipazione sui fenomeni “ci orienta” verso il loro trascendimento. Tutto il minimalismo della fotografia, al ready-made della realtà, ci fa percepire l’assenza dell’Essere.

Quella libera democraticamente (senza il bisogno personalizzato di mistificarla, coi “ricami” dell’intellettualismo). La ruota della bicicletta da accostare allo sgabello, citando Duchamp, ha la medesima cooperazione d’una macchina fotografica (fra la lente ed il soggetto). Il realismo d’uno scatto è comunque automatico, rispetto a quello più “naturale” dell’onirismo.

La fotografia ha il vantaggio di dimostrarci che tutto si costruisce per “impianti”, a volte appena pregiudiziali (ergo da “smascherare”), come nel caso dei prodotti pubblicitari. Lo zoom sarà forse banale per vendibilità, nei confronti d’una velatura. Ma al minimo sforzo del primo noi possiamo orientarci verso le domande del tipo “Che senso ha vivere per poi morire?”. Una fotografia spoglia del soggettivismo spinge a percepire che l’Essere appare “allucinante”, rispetto agli automatismi della nostra esistenza.

Esteticamente, possiamo ammettere un’unità d’intenti col surrealismo del ready-made. Nonostante i “capricci” d’una tecnologia ancora in erba, quindi malfunzionante, per Bazin “la scoperta della fotografia è l’avvenimento più importante dell’arte contemporanea, se quella crea direttamente… l’assenza d’una creazione“.

L’uomo ha sempre cercato una traccia di sé, dalla semplice impronta delle mani all’artigianato in serie (da industrializzare). Con la fotografia, per la prima volta egli ottiene che la memoria gli sopraggiunge da sola, al di là del suo assemblaggio: fra lente, zoom, otturatore, pellicola ecc…

La tecnologia diventa dialettica, rispetto all’uomo, universalizzando la temporalità tanto quanto l’intelligenza dell’autore; e nonostante “l’enorme” differenza dell’inorganicità. Sempre l’arte è stata intesa come un medium, per insegnare (possibilmente a tutti) il ricordo meritato di qualcosa. Con la fotografia, assistiamo ad un “cambio di rotta” sull’intuizione d’una presenza. Non abbiamo nemmeno il tempo d’accettare qualcosa, che quella già s’è manifestata.

La tecnologia fotografica simboleggia benissimo il classico “impulso” dell’uomo a trovare una forma (od essenza) per i fenomeni del mondo. Per il filosofo Costa, il miglior scatto è di chi tenta un dissolvimento sull’immagine, letteralmente inseguendone l’immortalità.

Se il fenomeno sempre si manifesta, e la macchina fotografica manifesta… meglio di noi (sino a fermare il tempo), allora questa ci darà l’autentica concettualizzazione poiché “adagiata” sullo “scorrimento” della realtà.

Per l’autore non è solo la ricerca d’uno sguardo che parte dall’interiorità “scavata”, bensì d’uno sguardo… sul medesimo atto di guardare (per un’esteriorità che sopraggiunge da un’interiorità “cavalcata”). La fotografia si rende esteticamente intensa laddove essa ci “apre un mondo” addirittura dentro alla fissità del tempo.

(Credits: Paolo Meneghetti)

Vaccari ha ventilato la percezione estetica d’un inconscio tecnologico. Con la fotografia, in presenza d’una materia dal realismo “opaco”, al dissolvimento dell’immagine che “si fa guardare… per lo stare a guardare”, e mentre l’arte in senso lato non serve (letteralmente) a nulla, alla fine si resisterebbe all’invadenza dei mass-media. Sarà un modo per “prepararsi” agli inganni pubblicitari.

Per il critico d’arte Lemagny, la fotografia non sottometterebbe il mondo a noi (come l’energia nucleare, al massimo grado), bensì ce lo replicherebbe in un… “cambio di rotta”: dal “semplicemente realizzato (in superficie)” al “fin troppo realizzato (per il “peso” dell’antropizzazione)”. La storia della filosofia insiste sempre sull’oltrepassamento della nostra esistenza, tesi alla Verità universale.

La fotografia sarebbe stato il primo tipo di tecnologia a permetterci virtualmente un “salto” dall’antropizzazione all’immortalità, rivalutando l’Alterità come un “canale” di trasfigurazione (lungi da una “meta” per il materialismo).

Più genericamente torna la concezione del filosofo Kant, per il quale l’opera d’arte ha “l’insistente presenza” della Natura, sia profonda sia oscura.


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