
Crisi climatica – Da Rio 1992 a Cop26 tra coraggiosi cambi di rotta e miopia politica
Keep 1,5°C alive. Possono poche parole e un numero descrivere l’urgenza della crisi climatica e l’importanza della Cop26? “Tenere vivo l’1,5 °C” è una frase potente e, in meno di due settimane, ha assunto molteplici significati. Era l’obiettivo principale della Conferenza delle Parti numero 26, quella di Glasgow di quest’anno.
È stato il messaggio più urlato dalle voci e dai cartelloni degli attivisti e delle attiviste arrivate in Scozia da tutte le parti del mondo.
È ancora un sogno.
Cop, incontri mondiali per far fronte alla crisi climatica
Sono quasi tre decenni che i governi mondiali si incontrano annualmente per cercare una risposta globale all’emergenza climatica.
Era ancora il 1992, infatti, quando a Rio de Janeiro si è tenuta la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente, il cosiddetto Summit della Terra, ed è stato firmato il trattato noto come Accordi di Rio.
Formalmente detto Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il trattato prevedeva che i governi perseguissero l’obiettivo di ridurre le concentrazioni atmosferiche dei gas a effetto serra.

La siccità è una delle manifestazioni più evidenti della crisi climatica (Credits: Micaela Parente, Unsplash)
Data la natura non vincolante di tali impegni, le parti firmatarie si sarebbero dovute incontrare ogni anno e stabilire di volta in volta azioni giuridicamente vincolanti – almeno per i Paesi sviluppati. Durante queste conferenze, inoltre, sarebbero stati analizzati i progressi nell’affrontare la crisi climatica, la cui consapevolezza all’epoca era ancora in fasce.
Nell’aprile del 1995, Berlino ha ospitato la prima Cop. Da allora, i 163 Stati membri delle Nazioni Unite, l’Unione europea, il Governo delle Isole Cook e quello di Niue (Stato insulare dell’Oceano Pacifico meridionale) si sono riuniti ogni anno, a eccezione del 2020, ovviamente a causa della pandemia.
Cambi di rotta e tappe fondamentali per il clima
Le Cop non sono state tutte uguali e alcune hanno portato a risultati più incisivi di altre.
Cop3 – Protocollo di Kyoto
Il protocollo di Kyoto è il primo accordo internazionale sul clima e sull’ambiente stipulato durante questi incontri. Firmato nel 1997 durante la Cop3, è entrato in vigore otto anni dopo, nel 2005, dopo la ratifica di Canada e Russia.
Prevedeva, per i singoli Stati, una riduzione delle emissioni del 5% rispetto ai livelli di emissione del 1990 entro il 2012. Si trattava di una percentuale media poiché differiva da Stato a Stato: l’Italia, per esempio, aveva sottoscritto un obiettivo di riduzione emissiva del 6,5% – il risultato effettivo raggiunto è stato un -4,6%.
Tra le misure attuative previste dal protocollo figuravano azioni preventive, come la maggiore efficienza ambientale dei processi, e azioni compensative, come una miglior gestione forestale in Paesi tropicali e la nuova forestazione. Come scritto di recente, queste ultime iniziative oggi sono largamente diffuse e ben volute da tutti i livelli della società, ma allora (e non senza ragione) erano state criticate poiché percepite come forma di neocolonialismo e deresponsabilizzazione.
Critiche a parte, alcuni Paesi sono effettivamente riusciti a rispettare gli obiettivi entro il 2012. E, dato il successo, il documento approvato durate la Cop18 del 2012 (Doha, Qatar) è stato definito una sorta di “Kyoto 2”; con la differenza, però, che stavolta gli obiettivi erano meno vincolanti.
Inoltre, secondo il report Warnings of climate science – again – written in Doha sand realizzato dal Climate Action Tracker, gli impegni non erano sufficienti per limitare l’aumento delle temperature medie globali al di sotto dei +2°C nei successivi cento anni.
Cop21 e Accordo di Parigi
Finora forse possiamo considerare quella di Parigi del 2015 la Conferenza più ambiziosa e concreta. La Cop21, infatti, ha negoziato l’Accordo di Parigi; “il più grande successo diplomatico del mondo” secondo il Guardian, “l’accordo storico” si leggeva sul Times e tanti altri giornali.

Agire subito: there’s no Planet B! (Credits: Markus Spiske, Unsplash)
Cos’ha di così speciale questo accordo? Ha davvero le potenzialità di contrastare la crisi climatica in maniera efficace?
La sua importanza è dovuta principalmente al fatto che è stato sottoscritto da tutti i Paesi partecipanti, anche da quelli emergenti – che spesso sfruttano pesantemente fonti di energia non rinnovabile.
“Obiettivo due gradi” è uno dei punti cardine dell’accordo. Mantenere l’aumento di temperatura entro 2 gradi dai livelli pre-industriali, e se possibile entro gli 1,5. Per attuarlo, ogni firmatario ha dovuto stabilire una serie di impegni concreti (ma volontari): i contributi determinati su base nazionale.
Un esempio è la promessa dell’Unione europea di ridurre le proprie emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. O l’impegno degli Stati Uniti di ridurre le sue del 50-52% rispetto ai livelli del 2005, sempre entro il 2030. Quello della Cina invece prevede che entro il 2030 il Paese arrivi al suo picco di emissioni di gas serra, per poi ridurli gradualmente.
Cop26 – Tra fallimento e speranze per la crisi climatica
Inizialmente prevista dal 9 al 20 novembre 2020, la Cop26 è stata rinviata dal 31 ottobre al 12 novembre di quest’anno. Città ospitante: Glasgow, Regno Unito. Primo check point dopo la Cop di Parigi, consapevoli dell’impatto che la degradazione ambientale può avere sulla vita dei singoli e carichi dalle premesse del G20 di Roma, tutto il mondo fremeva per i risultati di questa Conferenza.

Keep 1,5° C alive, la speranza della Cop26 (Credits: Mika Baumeister, Unsplash)
Dal Glasgow Climate Pact ci si aspettava tante cose che non sono arrivate. Invece di fuoriuscita dal carbone si parla di riduzione. I Paesi ricchi non hanno raggiunto la quota 100 miliardi, stabilita già durante la Cop15 per finanziare la transizione nei Paesi in via di sviluppo. E questi ultimi non avranno neppure un fondo che li tuteli dai danni causati dalle emissioni dai Paesi sviluppati.
Si pensava che una delle carte vincenti giocate per mantenere vivo l’aumento delle temperature entro 1,5 °C sarebbero stati i singoli contributi nazionali, rivisti e migliorati rispetto a quelli stabiliti a Parigi. A fronte della riduzione necessaria del 50% entro il 2030, però, però gli impegni attuali garantirebbero un taglio solo del 13,7%. È stato stabilito quindi che gli Stati dovranno sottoporne di nuovi già nel 2022 – e non dopo cinque anni come da regola.
Si può dichiarare quindi che la Cop26 sia stato un completo disastro? Non del tutto. Per la prima volta si parla di un impegno intermedio mondiale al 2030. Per la prima volta si parla di metano, e non solo di CO2, così come si riconosce la necessità di una transizione equa – anche se solo a livello teorico. E poi c’è l’accordo sulla deforestazione: invertire la rotta sempre entro il 2030.
Nessun Paese è un’isola
John Donne lo sapeva già nel 1500: nessun uomo è un’isola. Dopo cinque secoli, e con un processo di globalizzazione in mezzo, questo concetto vale anche per i Paesi.
Durante la Cop, il primo ministro indiano Narendra Modi ha dichiarato che raggiungerà la neutralità climatica entro il 2070, quando altri si impegnano per il 2050. L’India è il 145esimo Paese al mondo per Pil pro capite. La popolazione di già 1,38 miliardi di persone è in crescita. Usa elettricità prodotta per metà col carbone e infatti, a prima vista, è il terzo Paese per emissioni di gas serra.
Conciliare crisi climatica, economia e povertà è una sfida che i singoli Stati, da soli, non riescono ad affrontare. Non possono e non devono, forse. Le emissioni prodotte negli Stati Uniti, per dirne una, non alimentano forse la siccità che negli ultimi decenni ha investito l’Africa? Non sono forse i vestiti che indossiamo in tutta Europa, per dirne un’altra, a essere prodotti senza tregua nei Paesi più inquinanti dell’Asia?
Sì, e sì. E la risposta sarebbe la stessa per tante altre coscienziose domande.
Nessun Paese è un’isola. Lo è nelle cause, e dovrebbe esserlo nelle soluzioni.
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