Culti del lutto collettivo: la morte che educa alla conflittualità


Come si evince dal libro di Luca Jourdan Generazione Kalashnikov la condizione di violenza estrema è vista come una disumana sciagura solo da chi non l’ha vissuta in primo persona. Naturalmente, chi nasce e cresce entro uno scenario di guerra non può che categorizzare l’evento come un normale stato delle cose. La descrizione che ne scaturisce non lascia scampo a fraintendimenti: coloro che nascono in guerra “fabbricano” dispositivi culturali e resistenze individuali che di fatto si inseriscono nel contesto storico-sociale della guerra dando ad essa una continuità strutturale.

Molto spesso a livello sia psicologico che sociale, laddove vi siano stati di caos politico-sociale esasperanti, (vedi il crollo di un impero) la violenza ha la funzione assai rilevante di conferire nell’immediato un ordine apparente sancendo confini differenti tra gli uomini, creando collettività ad hoc o modificando modelli rituali e spirituali piegandoli a funzioni sociali innovative. Ben lungi dal voler qui condurre un’apologia della guerra, è importante invece evidenziare il fatto che talvolta la violenza viene scelta come modalità di azione sociale. Ciò significa che chi la sceglie crede o immagina di poter ottenere determinati vantaggi. Come suggerisce David Keen quindi, la violenza può essere un’opportunità piuttosto che un problema.

Questo ci invita a meditare sulle ragioni reali di un conflitto per scoprire che quasi mai quelle detenute e professate dai leader politici coincidono con le motivazioni espresse dalla base popolare. La violenza ha certe ragioni che motivano il suo innescarsi ed il loro peso specifico, nonché la loro sostanza, cambia a seconda dello strato sociale che si interroga.

La guerra è un’esperienza altamente invasiva che coinvolge inesorabilmente in modi differenti e con infiniti gradi di profondità. Al livello popolare la guerra genera violenza in gradi talvolta allucinanti e dalla paura scaturisce solidarietà. Le ostilità tra parti etniche è alimentata tanto dall’ostilità in quanto tale, quanto dai legami affettivi-collaborativi che attraverso la guerra si strutturano. Il lavorio sotterraneo della cultura, in situazioni disperate, popola l’universo locale di legami apparentemente ininfluenti e fa si che gli eventi più “ingestibili” per il loro carico di crudeltà e barbarie vengano reinterpretati in modo da fornire loro significati addomesticabili e collocarli entro certe coordinate simboliche ritenute sicure.

Un caso etnografico altamente esplicativo si delinea osservando la distribuzione del lutto in microentità in conflitto come il Nagorno-Karabakh. La densità demografica relativamente bassa in relazione al numero delle vittime per famiglia e agli strettissimi legami amicali, ha fatto si che la morte sia stata distribuita “democraticamente” tra gli abitanti della regione. Non sorprendentemente dunque, ognuno nel Nagorno-Karabakh può raccontare dettagli e storie riguardanti una persona amata caduta o scomparsa durante la guerra. Questo “conto dei lutti personali” è un elemento immancabile nelle conversazioni con i locali. Praticamente chiunque nel Nagorno-Karabakh ha una persona cara nell’elenco ufficiale dei caduti, che sia un parente più o meno stretto, un amico di famiglia, o un vecchio vicino di casa.

Come sempre, gli individui riconoscono il dolore altrui man mano che lo associano al proprio. Questa simpatia è ancor più agevolata dalla consapevolezza storica che questo carico di morte è conseguenza di uno stesso evento, la guerra caduta come una mannaia a recidere per sempre famiglie e affetti.

Da qui a trasformare il lutto personale – solitamente condiviso con una ristretta cerchia di persone – in collettivo il passo è breve. Gli indizi sociali di questo fenomeno sono facilmente rintracciabili nei monumenti, nelle celebrazioni pubbliche, nei musei. In questi spazi celebrativi il dolore è messo in comune in un gioco di conforto reciproco e rafforzamento di questo momento come peculiarità dell’identità collettiva.

Ciò rafforza il senso di famiglia allargata che questi abitanti hanno della loro stessa comunità etnica, senso che scaturisce da un evento vissuto assieme più che da presunte visioni primordialiste. Gli effetti di questa mistura culturale arrivano sino a poter asserire che la grande famiglia del Karabakh ha tanti padri e figli da compiangere.

Concludendo, questi dispositivi rituali e luoghi pubblici di culto hanno funzione di saldare nella quotidianità un trauma collettivo tramite la rimemorazione della scomparsa di una persona amata, delle violenze subite, di terre e altre prorpietà distrutte. Questo tipo di educazione, fatta d’informazioni e istruzioni che provengono dai “segni” visibili della guerra, aiuta a insegnare alle nuove generazioni cosa provare nei confronti della propria comunità e come sentirsi nei confronti degli avversari.

Possiamo dedurre quindi che in questo contesto ed in termini motivazionali rispetto alla conflittualità, assicurarsi un determinato status quo economico o legale passa in secondo piano rispetto alla priorità della difesa di tale famiglia allargata dagli attacchi esterni.

Oltre all’onniprensente e sempreverde campagna sciovinista in certi casi differenti dinamiche post-conflittuali divengono altrettanto importanti, quando non decisamete più influenti in termini di imprinting culturale. Il caso etnografico qui riportato è un esempio evidente di educazione pubblica all’approccio alla storia che si avvantaggia dell’ostentazione e del tramandarsi di un trauma collettivo. Ostentato perché esso non viene affatto rimosso ma potenziato di simbologie e allegorie narrative; enfatizzato in quanto tramandato nell’insegnamento scolastico e para-scolastico che innalzano la guerra e le sue implicazioni più dolorose al livello di momento fondativo di auto-consapevolezza di una appartenenza.

3 Commenti

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  1. Lorenzo

    Ciao, avrei alcune domande particolarmente calzanti rispetto all’articolo e anche più in generale alle discipline antropologiche ed etnografiche di cui ho visto ti occupi:

    1- Nell’ultimo paragrafo a cosa ti stai riferendo? Un esempio potrebbe essere la celebrazione annuale che si fa in Europa del genocidio nazista degli ebrei?

    2- La trattazione (sicuramente anche per necessità di stile in un articolo breve) mi sembra assai generica. A cosa ti stai riferendo nel postulare questi “meccanismi”? Questa diagnosi, diciamo così, quanto si può estendere? Ogni guerra è uguale?

    3- Tematica più lunga e complicata: il lessico che adotti (non solo tu, per carità) mi sembra un artificio letterario molto utile a fare passare fra le righe una valutazione di artificiosità/artificialità rispetto a legami e questioni profonde ed importanti per molti popoli, in pace o in guerra che siano. Certo la guerra può portare ad una nuova attenzione fra questi uomini alle origini familiari e religiose, ma perché trattarlo come una sorta di meccanismo, infine una specie di errore o di pericolo in cui la volontà degli uomini si annulla? Per lasciare intendere un giudizio di irrazionalità (o peggio, una strumentalizzazione) contrapposta alla razionalità del giudizio esterno che queste considerazioni deduce osservando? Si vuole dire che la guerra è uno stato irrazionale dei rapporti tra uomini e la pace è invece quello della razionalità? Poiché io credo che considerazioni generali con un simile approccio si potrebbero fare anche per popoli che da qualche tempo non affrontano guerre né grosse sciagure (quale ad esempio il popolo italiano). Insomma, vorrei chiederti una giustificazione dell’impostazione che adotti, che mi sembra voglia dare una spiegazione sottesa ai fenomeni che si osservano come se l’osservatore esterno avesse un qualche privilegio nel discernere cosa avviene poiché indotto irrazionalmente (a discapito di chi subisce questo fenomeno, che quindi ne sono determinati in quanto uomini), proprio come se si trovasse di fronte ad un meccanismo. Essendo sincero, questo modo di valutare le cose mi sembra assai arbitrario…

    • Luca Guiduzzi

      ciao Lorenzo

      1. mi sto riferendo principalmente al caso etnografico sopra descritto, ma si, commemorazioni come il 27 gennaio sono un altro esempio di educazione pubblica all’approccio alla storia, il quale è di per se stesso necessariamente idiosincratico, ossia seleziona ed esalta certi fatti simbolici che vengono a far parte di un certo repertorio culturale a discapito di altri: per noi l’olocausto ha un peso specifico nettamente superiore a quello, ad esempio, del massacro degli armeni avvenuto a cavallo tra il 1915 e il 1918 e che ha mietuto 1.300.000 vittime…

      2. fermo restando che, ovviamente, ogni evento è sempre e solo uguale a se stesso, e che le guerre iniziano e proseguono per un’infinità di motivi e con innumerevoli retroscena politici, culturali, economici, sociali, credo tuttavia che si possano trovare alcune (e sottolineo alcune) similitudini in termini di “reazione umana” e di struttura culturale conseguente. in particolar modo nell’articolo faccio l’esplicito riferimento alle affinità tra i luoghi post-imperiali (ovvero, detto più apertamente, ex unione sovietica, ex jugoslavia, ex paesi coloniali ecc.)

      3a. le relazioni sociale o di parentela sono sempre importanti, esse vengono però modificate dagli eventi e dalla storia <– un esempio più banale può essere il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare a cavallo degli anni 50-60 per opera di determinati cambiamenti nel mondo del lavoro, del mercato immobiliare ecc. l'esempio del Karabakh riporta però qualcosa di un po' diverso, qui si parla di una proiezione delle categorie familiari ad una comunità, proiezione non presente in precedenza, o per lo meno non con questa profondità.

      3b. la volontà degli uomini non è mai annullata, se mai limitata (si veda il concetto di agency che da qualche anno spopola nelle monografie sociali e antropologiche). certamente l'uomo è il primo interagente nel crearsi di strutture e relazioni e non mi pare di averlo messo in dubbio nell'articolo.

      3c. il dualismo razionale-irrazionale è uno strumento interpretativo che non ha molto futuro, secondo me. consiglio anche a te di lasciarlo perdere. il modo in cui gli eventi si interpretano, in cui si reagisce ad essi (che si tratti di scenari di guerra subsahariani o miti colline altoatesine) non ha nulla a che spartire con il razionale e l'irrazionale. non mettiamo la scienza dove non dovrebbe stare, per favore…

      3d. fabbricano interpretazioni atte a dare un ordine a cose, eventi e persone, tanto gli individui che si trovano in condizioni allarmanti nella regione del nord Kivu (libro di Luca Jurdan), così come coloro che hanno preso parte alla guerra civile in Sierra Leone (David Keen ha studiato lungamente in quel posto), e pure i cittadini della regione autoproclamatasi indipendente del Nagorno-Karabakh, proprio come lo facciamo io e te quando andiamo a fare la spesa, un operaio che intende associarsi con la fiom per condurre le sue battaglie sindacali, un industriale che taglia il personale per risparmiare sui costi ecc.
      nessuna differenza. nussun arbitrio frutto di etnocentrismi di dubbia natura…il fatto che io sia un po' più interessato a capire e studiare questo genere di "meccanismi" (come li chiami tu) in luoghi di conflitto, questo si è arbitrario.

      3c. l'osservatore esterno (che sarei io), che tu ci creda o no prova a descrivere una situazione per come l'ha vista con i suoi occhi e tramite – questo si – la lente d'ingrandimento delle scienze antropologiche, che è se vogliamo un'altra interpretazione. quest'ultima critica sarebbe accettabile, sebbene come sostiene una certa scuola di pensiero, non vi è alcuna insolenza nel fare lo sforzo di tradurre un'evento culturale nel proprio linguaggio culturale..

      grazie per il commento, davvero

      a presto,
      L

  2. Lorenzo

    Dunque, ti rispondo solo su alcune cose per chiarire un po’ meglio la mia posizione, perché nel complesso sei stato già diretto ed esaustivo (nei limiti di una discussione in questo contesto!)…

    2- Sulla seconda domanda che ti ho fatto in effetti sono stato poco chiaro. Intendevo che diversi tipi di guerre possono essere assai differenti secondo i modi e le finalità. Voglio intendere che non ogni violenza è sempre volta ad uno stesso fine né condotta in certi modi. Le guerre fatte nel nome di un dio e fatte da cavalieri e simili non sono lo stesso di una guerra condotta con artiglieria pesante e in circostanze assai più frammentate, di disperazione e guerriglia. Cioè, c’è da considerare la situazione effettiva per cui gli uomini agiscono. Credo che questo sia davvero la cosa più importante per conoscere in modo non superficiale tali circostanze…

    3- Hai ragione che razionalità e irrazionalità sono criteri con poco futuro (specie nell’ambito delle scienze umane), ma le loro derivazioni più o meno deboli sono evidentemente necessarie ad una qualsiasi prospettiva scientifica. Potremmo tradurlo così: la razionalità è il discrimine tra colui che osserva e comprende il meccanismo e colui che è osservato e dominato dal meccanismo. Sempre di questo si tratta, infine. Certo si può “tradurre” un evento per rendercelo noto e facilmente accessibile, ma mi sembra che in questo modo non si faccia giustizia per nulla su quegli uomini, quelle azioni, quelle circostanze del mondo. Dopodiché trovo davvero apprezzabile il proposito che tu dimostri anche nella tua presentazione riguardo all’interesse per i fatti degli uomini, ma credo che l’antropologia faccia un passo in più (dichiaratamente) del mero interesse alle vicende e credenze degli uomini. L’interesse a fornirne una spiegazione (che è qualcosa di più di un interpretazione, mi pare, anche se in questo caso il confine è sottile), come dici tu, “tramite la lente d’ingrandimento delle scienze antropologiche” non mi persuade.

    Comunque ti ringrazio della piccola discussione. A presto!

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