“Ricorda il Guerriero Rosso”: l’onore e l’eredità dei samurai


Quella del Bushi (guerriero) è stata per lungo tempo considerata una delle stirpi più nobili dell’impero nipponico: il samurai, oltre a essere rispettato dalla popolazione come uomo d’onore, era un tassello fondamentale nell’economia del giappone.

Egli infatti poteva ricoprire cariche piuttosto importanti, quali l’amministrazione di appezzamenti di terra, o la gestione dei rapporti commerciali con i porti dell’impero. Inoltre, poteva fare da scorta a uomini importanti come i Daimyo (capi feudali). I samurai che non servivano un Daimyo, perché morto o perché ne avevano perso il favore, erano chiamati Ronin.

L’onore era ciò che guidava il samurai, e la cieca devozione al capo si doveva al codice Bushi-Do: “la via del guerriero”. Il Bushido dettava regole basilari che un guerriero doveva rispettare per poter essere considerato fiero, retto e perfetto. Ignorare le regole del codice avrebbe portato il samurai a un bivio: rinnegare passato, casa, famiglia, amici, amori per una vita ai confini del mondo, errando alla ricerca di una meta e divenendo Ronin; oppure togliersi la vita tramite il suicidio rituale: harakiri. Spesso il vero Bushi riteneva che il seppuku fosse la via migliore per redimere la propria anima dalla macchia indelebile del disonore. Ormai entrato nel linguaggio comune occidentale, l’harakiri (da “hara” ventre e “kiru” tagliare) meglio noto in Giappone come seppuku, kappuku o altre denominazioni, veniva praticato volontariamente per svariati motivi: spesse volte era una condanna a morte che non disonorava il guerriero. Infatti il condannato, vista la sua posizione nella casta militare, non veniva giustiziato, ma invitato a togliersi da solo la vita, praticandosi con un pugnale una ferita orizzontale profonda all’addome, di una gravità tale da provocarne la morte. Per preservare la dignità e l’onore del guerriero, un compagno, previa promessa all’amico, decapitava il samurai subito dopo che egli si era inferto la ferita all’addome, per fare in modo che il dolore non sfigurasse il volto del fiero soldato.
Il rituale del seppuku era prassi comune per i Ronin. La parola entrò nell’ uso comune per indicare la forma “addolcita” di harakiri, che veniva considerato il gesto estremo poiché il guerriero si lasciava morire in una profonda agonia. Nel 1889, con la costituzione Meiji e la soppressione dei ranghi militari, l’harakiri venne abolito come forma di punizione e scomparve definitivamente in Giappone.

Ma perché questa figura tanto misteriosa è rimasta nel pensiero dei giapponesi?

La parola giapponese samurai deriva dal verbo saburau, che significa servire o tenersi a lato. I samurai costituivano una classe colta che, oltre alle arti marziali, direttamente connesse alla professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodo.
Raggiunti i tredici anni, in una cerimonia chiamata Genpuku, ai ragazzi della classe militare venivano dati un wakizashi e un nome da adulto, per diventare così vassalli: samurai a tutti gli effetti. Questo dava loro diritto di portare una katana, sebbene venisse spesso assicurata e chiusa con lacci per evitare sfoderamenti immotivati o accidentali.

Col tempo, durante l’era Tokugawa, persero gradualmente la loro funzione militare. In questo periodo, a seguito dell’influenza dello zen sul bujutsu, si diffuse l’idea che l’anima di un samurai risiedesse nella katana che portava con sé.
Verso la fine dell’era Tokugawa, i samurai erano essenzialmente burocrati dello shogun, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali. Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale.

Nonostante questo il Bushido, rigido codice d’onore dei samurai, è sopravvissuto e nella società giapponese odierna costituisce un nucleo di principi morali e di comportamento, paragonabile ai principi etici di derivazione religiosa delle società occidentali.

Ma non si tratta dell’unica eredità dei samurai.
Nell’iconografia classica del guerriero, il ciliegio rappresenta insieme la bellezza e la caducità della vita: esso, durante la fioritura, mostra uno spettacolo incantevole nel quale il samurai vedeva riflessa la grandiosità della propria figura avvolta nell’armatura; ma è sufficiente un improvviso temporale perché tutti i fiori cadano a terra, proprio come il samurai può cadere per un colpo di spada infertogli dal nemico. Il guerriero, abituato a pensare alla morte in battaglia non come un fatto negativo ma come l’unica maniera onorevole di andarsene, riflette nel fiore di ciliegio questa filosofia. Un antico verso ancora oggi ricordato è “hana wa sakuragi, hito wa bushi” (花は桜木人は武士) che tradotto significa “tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero” – (Come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così, il guerriero è il migliore tra gli uomini).

Questa idea romantica del guerriero e dell’uomo è rimasta viva  nell’animo del giappone: «Dicono che il Giappone sia nato da una spada. Dicono che gli antichi dei abbiano immerso una lama di corallo nell’oceano e che, al momento di estrarla, quattro gocce perfette siano cadute nel mare e che quelle gocce siano diventate le isole del Giappone. Io dico, che il Giappone è stato creato da una manciata di uomini coraggiosi, guerrieri disposti a dare la vita per quella che sembra ormai una parola dimenticata: onore».

4 Commenti

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  1. Luca Rasponi

    L’articolo è molto bello, interessante e ben scritto, complimenti. Però lascia una strana sensazione, una sorta di perplessità che mi fa pensare ogni volta che mi avvicino alla cultura giapponese. Una cultura che mi incuriosisce molto, ammirevole per certi aspetti, ma che per altri mi lascia interdetto.

    Faccio fatica a condividere, ad esempio, la grande importanza culturale conferita all’onore, che poi è il nucleo di questo articolo. In un bel libro che ho appena finito di leggere (“Shantaram” di Gregory David Roberts) è scritto che “La virtù riguarda ciò che facciamo, e l’onore il modo in cui lo facciamo”.

    Mi trovo assolutamente d’accordo su questo punto, ragione per cui non ritengo l’onore un valore centrale per l’essere umano. Lo ritengo anzi molto pericoloso, per la sua natura a-morale (ciò priva di un giudizio di valore, chiedo scusa per il gioco di parole) e il suo carattere assoluto, bianco/nero, quasi militarista.

    Credo che, se il pensiero contemporaneo vuole configurarsi come cultura aperta e comprensiva del prossimo, debba basarsi su valori connotati positivamente come onestà, lealtà e integrità.

    Diversamente da questi, l’onore è un valore dogmatico nella sua accettazione e fedeltà a un codice di regole precostituito; ragion per cui secondo la mia opinione andrebbe superato. Anche perché se è vero che il “come” si fanno le cose conta non poco, sono le cose che facciamo a renderci ciò che siamo, come individui e come specie: “Non è tanto chi sei, quanto quello che fai, che ti qualifica”.

    • Enrico Mambelli

      Grazie mille per i complimenti positivi, anche secondo me un antico metodo, il più delle volte superato,può avere punti interessanti che, a mio parere, potrebbero essere presi in considerazione.
      🙂

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