Le chiamano Archistar


Le chiamano archistar. Costruiscono grattacieli a Dubai, dove nella più totale confusione distributiva innalzano villaggi avvenieristici. Firmano progetti che si traducono in opere autoreferenziali. Edifici in cui ciò che prevale è la genialità del singolo architetto, chiuso nella roccaforte di un’artisticità sempre più tradotta in moda, simbolo di architettura come brand. Abilissimi professionisti addetti a stabilire trend, a stupire il grande pubblico con prodotti glamour che poco o niente hanno a che fare con la vera architettura.

In gran parte della cultura architettonica contemporanea esiste la presunzione che il progetto non sia una cosa valutabile, perché indissolubilmente legato al genius di chi l’ha creato. E questo sta portando progressivamente alla creazione di strutture “da guardare”, narcisistiche ed autorappresentative, che spesso non condividono né la storia né il contesto in cui si trovano.

I protagonisti sono i soliti noti: Renzo Piano, Santiago Calatrava, Alvaro Siza, Massimiliano Fuksas, Norman Foster, Zaha Hadid, Frank O. Gehry, David Chipperfield. Senza nulla togliere ai loro progetti, a volte è necessario andare oltre la soggettiva bellezza estetica per capire la reale necessità di queste super-architetture.

A questo scopo, è indispensabile tornare a rendere protagonista l’urbanistica, accantonando la moda di assoldare architetti famosi, portatori del concetto di architettura simbolo, pensata senza l’uomo che dovrebbe viverla. Al contrario, come dice Luca Molinari, «gli edifici e gli spazi pubblici da pensare non devono scioccare né provocare nessuno, ma semmai essere materni, accoglienti, riscoprire le forme geometriche e la loro armonia, ma senza rinunciare alla vitalità e al divertimento di volumi, materiali e colori diversi».

Anche l’Italia, dopo anni di “letargo” architettonico, sta subendo il fascino di queste architetture. A Roma si è voluto replicare il successo dell’Auditorium di Renzo Piano con il Maxxi di Zaha Hadid, il nuovo Macro di Odile Decq o il nuovo centro congressi Nuvola di Fuksas, in corso di realizzazione. A Milano si scommette sul quartiere Santa Giulia firmato da Foster, la vecchia Ansaldo trasformata in polo culturale da Chipperfield e il completamento della nuova fiera di Fuksas con gli interventi di Perrault, Araassociati, Gino Valle e Cino Zucchi. E come Milano e Roma, altre città in tutta Italia tentano di coinvolgere gli architetti più in voga del momento.

L’idea di affidare alle archistar la riqualificazione e il ritorno a una certa visibilità dei centri abitati è in una certa misura condivisibile. Ma credo che per creare buona architettura, soprattutto nelle nostre città, impregnate di storia fino all’ultimo mattone esistente, le archistar si dovrebbero confrontare maggiormente con i nostri architetti, ingegneri, politici, amministratori, mettendo da parte un poco del loro ego per creare edifici a misura d’uomo.  Perché spesso non sono le grandi opere a correggere le grigie periferie o il maltrattato territorio italiano, ma le piccole e medie architetture: le scuole, gli uffici, le case.
Ciò che è piccolo sta scomparendo. Nel nostro tempo sopravvive soltanto ciò che è grande. Come le immagini che ci circondano appaiono sempre più strillanti, poliformi e disarmoniche, così le città diventano più complesse, assordanti, dissonanti e opprimenti. La città stessa diventa un immagine, e i suoi edifici simboli. Gli architetti spesso si dimenticano che anche il vuoto fa parte della città. Andrebbe conservato, affinchè la sovrabbondanza non accechi e ciascun abitante possa godere dell’architettura più bella: la natura.

Il punto è: in che misura abbiamo bisogno di questi landmarks? Sicuramente possono rappresentare grandi occasioni di crescita sia culturale che economica, ma devono agire nel tessuto della città, stringendo rapporti con essa e con la sua storia, altrimenti rischiano di diventare simboli estranei e sterili.

E noi rischiamo di diventare abitanti involontari di uno scintillante Truman Show, dimenticandoci che l’architettura ha una memoria e un vissuto, ma anche corpo, suono, colore, odore, durezza e fisicità.

7 Commenti

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  1. Lorenzo Sarti

    Devo dire che in parte mi trovo d’accordo con te, soprattutto nella parte in cui ammonisci le “archistars” di non prendere in considerazione troppo il contesto in cui progettano. In un paese come il nostro è un’idea folle non relazionarsi con l’intorno.
    La facoltà di Cesena dove tu e io abbiamo studiato, sicuramente incentiva il disprezzo dell’architettura fine a se stessa per una ricerca compositiva che si relazioni con il tessuto della città. Il buon Aldo Rossi insegna.
    Ma vorrei porti questo quesito, siamo proprio sicuri che per quanto autoreferenziali, una buona architettura di una qualsiasi delle archistars che tu sopra hai citato, non sia un valore aggiunto? Dobbiamo per forza rifugiarci dietro ad architetture mediocri e piccole per poter rispettare il nostro paese? Prendiamo degli esempi.
    Ti vengo assolutamente in contro iniziando a parlare dell’Ara Pacis a Roma. Se tu visitassi uno qualsiasi degli edifici di Meyer sarebbe la stessa cosa. Tutti fatti con lo stampino, ma in questo caso, lo scempio si compie costruendo senza la minima accuratezza nei confronti di ciò che lo circonda. Dove sta il punto a favore? Mi mordo le labbra dicendo questa cosa, ma sicuramente, l’oggetto contenuto dentro questa grande teca ha amplificato la sua notorietà grazie all’archistar. Ciò che prima riparava l’altare di Augusto te lo ricordi?!
    Il Maxxi, sempre nella città di Roma, è stato costruito fuori ed è un museo splendido! Funzionale e ricco di spunti per la museografia (a mio parere). Sicuramente Roma dovrebbe puntare di più a ciò che già ha nel suo centro storico (dato che cade a pezzi) ma ormai che l’edificio è realizzato, apprezziamolo per le sue ottime caratteristiche.
    Ho già espresso poi molti apprezzamenti per i ponti di Calatrava a Reggio Emilia, dei capolavori di architettura e ingegneria che oltre che a stupirti per come possano stare in piedi, danno una forte impronta estetica e di memoria a zone normalmente noiose e di bassa qualità architettonica. In più Reggio Emilia si fa una buona pubblicità, questo non guasta, soprattutto in questo periodo.
    Uscendo dall’Italia ti consiglio Berlino. Un meraviglia di architettura e strutture. Un ottimo rimedio per rispondere ad anni di sfortune e scelte sbagliate, le archistars riescono a fare anche questo.
    Sarebbero tante le cose da dire su Renzo Piano e le sue ricerche maniacali sul modo di rapportarsi con il contesto e raggiungere gradi di ottima qualità tecnologica delle sue strutture.
    Sia chiaro, non voglio elogiare le archistars e mai diventerò un fan di Fuksas o Foster, ritengo solo che il pregiudizio verso l’architettura autoreferenziale è sbagliato. Uno scrittore o in generale qualsiasi artista usa un suo linguaggio che lo caratterizza e con il quale arricchisce la cultura comune della gente.
    Ecco tutto.
    Scusa per il poema, ma trovo interessante confrontarmi.
    Notte!

    Lorenzo

  2. Claudio Carminati

    Per inquadrare il ruolo delle “archistar” nella ridefinizione del paesaggio urbano e valutarne meglio l’operato, penso sia necessario tenere conto di alcuni fattori solo in parte riguardanti l’architettura in senso stretto.
    Le scelte in materia di urbanistica sono spesso in mano ad amministratori che cercano, assoldando grandi firme, di dare prestigio alla città che si trovano tra le mani e, perché no, anche di lasciare una traccia “visibile” del proprio passaggio (Hausmann docet). Se condiamo tutto questo con un pizzico – a volte più di uno, a dire il vero – di megalomania, il pericolo di interventi scellerati sul tessuto urbano si fa concreto.
    E’ a questo punto che subentrano le responsabilità dell’archistar di turno. Se è sensibile alla necessità di dare vita a forme in armonia con il contesto all’interno del quale il progetto andrà collocato, pur senza snaturare il proprio stile saprà imporre la propria “autorevolezza” e proporre soluzioni in grado di arricchire la città. Se, al contrario, non approfondisce la ricerca storica e culturale sulla città e sul suo territorio finirà con l’assecondare supinamente il desiderio di “grandeur” degli amministratori, “regalando” alla città opere posticce, del tutto avulse dal contesto nel quale vengono innestate.
    Due esempi che ho sotto gli occhi tutti i giorni, a Parma. Il primo è positivo: Mario Botta nel ridisegnare Piazzale della Pace ha saputo integrare l’esistente giocando molto su elementi che fanno parte di Parma, della sua storia, del suo territorio, come l’acqua, i filari di pioppi, etc. Il secondo è negativo: il progetto di Oriol Bohigas per la ristrutturazione della stazione ferroviaria ha un impatto estetico pesantissimo, non valorizza né riqualifica l’esistente, non è neppure originale (un’enorme tettoia in acciaio e policarbonato…), è sovradimensionato e soprattutto non ha nulla a che vedere con Parma… si è forse mai vista un’acciaieria da quelle parti? Concettualmente, che cosa mi rappresenta quell’enorme quanto inutile copertura?
    Claudio

  3. Valerio Aversa

    Ciao Elena,

    Chi avrebbe pensato di ritrovarti su un blog su internet dopo esser stati segati a un esame!!!… 🙂
    Ho letto il tuo articolo e devo dire che tratta un argomento molto delicato e controverso. 🙂
    Le archistar che hai citato sono fra i più grandi esponenti dell’architettura mondiale, oramai a Cesena ci hanno fatto il lavaggio del cervello e vogliono farci credere che questi architetti sono un misto di narcisismo e manie di grandezza. Secondo me non sono niente del genere.
    Per parlare di un architetto bisogna parlare di quello che ha fatto. Come dice Renzo Piano l’architettura va fatta. Si può essere dei bravi teorici dell’architettura come la maggior parte dei nostri professori, ma fare architettura è un’altra cosa, è come parlare con un falegname che non ha mai fatto un mobile. Non tutti, per fortuna qualcuno si salva. 🙂

    Se noi guardiamo le opere di questi grandi ci accorgiamo che c’è un motivo per il quale queste opere sono diventate “grandi”, architetti come Renzo Piano e altri sono stati i pionieri di quella che per esempio è oggi l’architettura sostenibile di cui ormai non si può fare a meno, materiali leggeri, riutilizzo, erano cose che ai loro tempi erano quasi impensabili eppure loro, i “grandi” di oggi già ci pensavano.

    Non dimentichiamoci poi che questi grandi vengono chiamati oramai solo per costruire grandi opere, diciamoci la verità uno stadio da 100000 persone non deve essere “materno e accogliente” deve essere l’esatto contrario, appariscente, provocatorio, deve spiccare dal contesto e creare una rottura, a fare questo i “grandi” sono i migliori del mondo. Se poi andiamo a vedere la gioventù di questi ultimi, da dove sono venuti scopriamo che quando andavano a trattare architettura più modeste, un abitazione familiare o quantaltro non si comportavano poi così diversamente dagli architetti “normali”. Anche qui ci sarebbero da fare delle distinzioni ma evitaimo se no non finisco più.

    Per quanto riguarda il ritorno in Italia di quest’erchitettura di alto livello io la vdeo solo come una cosa positiva, quello che ha rovinato l’Italia sono anni di abusi edilizi e corruzione delle amministrazioni pubbliche che hanno portato a un utilizzo sconsiderato del territorio e alla distruzione di una buona parte del nostro patrimonio. quello che serve al territorio italiano sono amministrazioni serie, un piano regolatore degno di questo nome, e evitare di fare condoni ogni 2 mesi.

    Non saranno sicuramente 3 o 4 opere di qualche archistar a rovinare l’Italia. Belle o brutte che siano non dimentichiamoci che sono comunque progettate da architetti degni di questo nome e non da qualche palazzinaro a caso.

    Va beh la smetto… 🙂
    Ciao ragazzuola, io fra due settimane me ne vo.
    Un bacione e in bocca al lupo per tutto!

  4. Ste.V

    Sono capitato qui per caso ma leggendo l’articolo sono assolutamente d’accordo con te! Tra l’altro la critica alle archistar mi sembra un minimo più “ponderata” di quella portata avanti da chi, pur nella ragione, la fa urlando e in un modo un po’ allegramente populista.
    Condivido anche il riferimento del primo commentatore ad Aldo Rossi, ce ne fossero come lui.

    Però devo aggiungere un paio di cose:
    1) dall’elenco iniziale sottrarrei Siza, Chipperfield e Piano. Si, lo ammetto, sono tre architetti che apprezzo molto, soprattutto gli ultimi du. Come già detto da qualcuno, Piano è considerato il punto d’unione tra l’architettura a grande scala, dei grandi centri commerciali, delle infrastrutture, high-tech, e la sensibilità per la bellezza, per la forma, che abbiamo noi italiani. Quindi lo vorrei un po’ scagionare. Così come Chipperfield: certo, anche lui ha affrontato progetto importanti, però c’è da dire che tra le archistar è quello meno appariscente, quello che produce architetture che per la sua capacità di padroneggiare i materiali e la forma sono eleganti e tutto sommato non stonano nei contesti. tra l’altro è anche il curatore della Biennale di quest’anno quindi almeno in teoria dovrebbe essere più sensibile al dibattito teorico. Siza invece è sempre stato moderato, ha recuperato i valori dell’architettura giapponese, ha sempre affrontato opere con grande senso critico….forse non lo metterei nelle archistars.
    (poi vabbè, tra tutte le archistar l’unico che ammiro è Gehry, ma esclusivamente per una passione personale)
    2) l’unico lato positivo che vedo in questi interventi delle archistars, soprattutto quando avvengono nei centri storici è che tutto sommato la sistemazione urbana ne guadagna. Mi spiego: essendo opere di grido che attraggono visitatori, tutto ciò che cade all’interno della loro sfera di influenza, deve essere ineccepibile. Per parlare di due esempi citati: davanti al MAXXI è stata creata una nuova piazza, molto ordinata, molto carina, soprattutto pubblica, e lo stesso è stato fatto per il Parco della musica dove attorno c’è addirittura molto verde. Idem per l’Ara Pacis: la nuova pavimentazione antistante è riuscita, al contrario dell’opera si integra bene con micro-contesto locale ed è un nuovo spazio a valenza pubblica…meglio che nulla!
    Quando in ballo ci sono architetti non di grido, o soluzioni che mediocri (per estensione fisica, ma sicuramente più sincere a livello costruttivo, concettuale, storico…) spesso queste attraverso il disinteresse generale e finisco nel degrado!

  5. Ste.V

    (p.s.: ovviamente Siza ha recuparato i valori dell’arch. portoghese, non giapponese 😛 piccolo svarione mentale e dattilografico…)

  6. Elena Ramilli

    eccomi! scusate il ritardo, sessione d’esami un po’ impegnativa…proverò a rispondervi uno ad uno.
    @Lorenzo Sarti. Hai pienamente ragione, l’Italia non può e non deve, con la scusa delle tantissime preesistenze storiche, fermare la sua crescita architettonica e limitarsi ad architetture mediocri e “piccole”. Non ci sono mai stata ma so benissimo che il Maxxi è un bel museo e soprattutto che funziona. Infatti è stato inserito in un elenco di nuove architetture italiane che voleva solo dare un’idea di come anche l’Italia si stia piano piano rinnovando, nonostante la crisi e le solite problematiche legate alla mancanza di soldi e alla burocrazia italiana. Io non sono contro i grandi edifici contemporanei, sia ben chiaro! il mio articolo voleva solo essere una provocazione riguardo la ricerca spasmodica di architetture firmate. Siamo sicuri che uno studio di giovani architetti italiani, magari non così conosciuti, non saprebbe fare altrettanto bene?
    Per quanto riguarda l’architettura autoreferenziale credo che si debbano porre dei limiti. Usare un linguaggio riconoscibile è giusto, e non vedo come non si potrebbe fare altrimenti (infondo anche la più sterile architettura razionalista degli anni ’20 conteneva le tracce, più o meno visibili, di chi l’aveva progettata..) ma forse c’è un limite. Mi viene da pensare alle ultime opere di Chipperfield, come il progetto dell’M9 a Mestre. Alcune soluzioni sono interessanti, ma del resto sembra che sia la brutta copia di altri edifici già visti e rivisti…mi vien da pensare che sia bello solo perchè porta la sua firma.
    #Claudio Carminati. I due esempi che hai citato fanno campire come non si possa fare di tutta l’erba un fascio.Non tutte le archistar si approcciano al progetto allo stesso modo. Ho studiato di recente il concorso per il Neues Museum di Berlino e sono rimasta sconvolta da alcuni progetti. Insomma, soprattutto nelle aree più delicate come quelle storiche, ci vorrebbe un po’ più di tatto. E questo non credo sia un limite per l’architetto.
    @Valerio Aversa. Il mondo è piccolo eh! :)Hai ragione a dire che quello che ha rovinato l’Italia sono stati anni di abusi edilizi e corruzioni..quello è il male peggiore! Io non sono contro le grandi opere contemporanee, anzi! Rispetto tutti gli architetti che ho citato e sono d’accordo con te nel dire che la loro presenza in Italia non è sicuramente un fattore negativo. Ma lavorando in uno studio di giovani architetti ho capito che anche nelle nostre piccole realtà ci sono persone davvero in gamba e con idee innovative. Allora mi chiedo, è davvero necessario interpellare questi grandi architetti (e pagarli caro) quando sotto i nostri occhi ci sono tanti giovani architetti che potrebbero fare altrettanto bene?Senza contare che conoscono il territorio italiano sicuramente meglio di chiunque architetto straniero, pur famoso che sia. Ecco, io punterei più a questo che alla firma.
    Concludo augurandoti una buona permanenza in Australia.Ti invidio da morire!
    @Ste V. E’ vero, Chipperfield, come anche Piano e Siza, sono tra gli architetti più attenti al contesto e al fattore storico…Mi viene in mente ancora il Neues Museum a Berlino e la riqualificazione portata avanti da Chipperfield. Un opera sublime dal mio punto di vista, molto delicata e rispettosa delle preesistenze. E anche in questo caso come hai detto tu,vi è stato tutto un miglioramento urbano che ha interessato l’isola dei musei in una visione più ampia. Sicuramente questo aspetto è da tenere in considerazione!

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