Degni del lavoro? Spunti di riflessione da Marcuse per una visione umana del lavoro


In momenti in cui la crisi economica questiona noi occidentali sui presupposti e i valori su cui abbiamo fondato il nostro mondo economico, e a maggior ragione in questi mesi, in cui in Italia si è discusso sui modi del diritto al lavoro in seguito alla riforma dell’articolo 18, può essere interessante trarre spunti di riflessione da alcuni degli ultimi grandi pensatori che si siano soffermati sul significato che il lavoro deve o può avere per l’uomo. Herbert Marcuse, che se ne condivida il pensiero o no, offre vari aspetti da cui partire per condurre poi anche una riflessione generale e originale.

Marcuse, esponente della scuola di Francoforte, neo-marxista, figura di riferimento per molti giovani sessantottini, non lo citiamo qui nei suoi aspetti più famosi, legati a scritti come La fine dell’utopia o L’uomo a una dimensione; lo prendiamo invece in un momento più precoce, utilizzando un suo saggio del 1933, Sui fondamenti del concetto di lavoro, uscito nella Rivista per la ricerca sociale. Il filosofo tedesco dà qui proprio una prospettiva del significato del lavoro in senso umano, in alternativa a una visione di esso limitata all’economia.

Ora, la discussione sul valore umano del lavoro non è propria solo del marxismo; non solo infatti il lavoro è una dimensione essenziale dell’uomo e solo dell’uomo, ma in quanto tale esso ha interrogato filosofie e religioni di matrice diversissima. Dal cristianesimo al marxismo, dall’idealismo hegeliano all’Esiodo de Le opere e i giorni, la nostra storia è pregna delle parole di uomini che hanno voluto prendere coscienza della loro dimensione umana anche a questo rispetto, rifiutando tanto di subire come una triste fatalità la loro fatica quotidiana quanto di ridurla all’ottica del guadagno e del sistema economico. Parliamo qui di Marcuse, allora, non in quanto socialista, ma in quanto portatore di una consapevolezza dell’umanità del lavoro.

In cosa si distingue l’uomo dall’animale (o dagli altri animali)? Certamente in molti aspetti, ma anche e non secondariamente nella dimensione del lavoro, che, anzi, nel Marcuse almeno del saggio considerato, sembra ricoprire addirittura il ruolo chiave dell’esistenza umana. Se infatti l’animale accetta di “lasciarsi accadere”, di vivere cioè “alla giornata”, mirando alla propria sussistenza e a nient’altro e cessando l’attività quando questa sia soddisfatta, l’uomo crea. Egli crea un mondo: versa se stesso nella produzione di un oggetto che prenderà poi un significato proprio; oggettivizza la propria soggettività in esso, cioè si versa in una dimensione che lo assorbe totalmente; assume il peso che questo lavoro comporta; trasforma il suo essere transitorio in una produzione destinata a restare, dotata di caratteri di durata e permanenza; crea un ambiente da cui i suoi figli partiranno per creare a propria volta il loro nuovo mondo.

La storia umana, per il filosofo della scuola di Francoforte, non è che il concatenarsi di questi sforzi: l’uomo non può sostare nel suo semplice esistere, ma deve continuamente, per così dire, “darsi da fare”: trasformare se stesso attraverso l’assorbente esperienza lavorativa, che lo costringe alla fatica, ma gli conferisce un potere e – se vogliamo usare un termine forse un po’ azzardato nel contesto – una dignità unici e suoi propri. Il gioco, che è la dimensione alternativa a quella del lavoro, che è dispersione e disimpegno, non esiste per Marcuse in altro modo che in funzione del lavoro: per dirlo in un’estrema sintesi che non rende giustizia al testo, il gioco è “recupero” dalla fatica. Questo non significa però che nella visione di questo pensatore l’uomo non abbia altro che un’essenza lavorativa e cupamente volta al realizzarsi nella abnegazione; dire questo sarebbe mal interpretare il concetto di lavoro com’esso è elaborato in questo saggio. Se infatti l’essere umano, per essere tale, affronta i bisogni in maniera creativa e in modo tale da modificare l’ambiente circostante, nondimeno, come si è accennato, egli non arresta la propria opera una volta soddisfatte le sue necessità materiali. 

Marcuse infatti si cura bene già fin dalle prime pagine del saggio di smentire la visione per cui il lavoro è appagamento dei bisogni in questa o in quest’altra modalità, e sottolinea la presenza di esigenze nella natura umana che vanno ben oltre il bene materiale; questa posizione viene sostenuta in particolare contro la tendenza dell’economia ad appiattire l’uomo sulla propria dimensione, in una critica quanto mai azzeccata specie se riportata a questi nostri ultimi anni. Egli dice anzi esplicitamente in altri passi, riprendendo Marx, che esiste un “regno della libertà” consistente nella prassi lavorativa che si sviluppa solo dopo l’avvenuto appagamento dei bisogni primari (e qui sembra far capolino quello stesso filosofo che sosterrà più tardi l’importanza di liberare le capacità creative nell’uomo). Cito testualmente: «Solo in una situazione come questa [quella di libertà dalle necessità materiali] possono manifestarsi, al di là di ciò che è casualmente presente e di ciò che deve essere necessariamente procurato, l’integrità e la pienezza dell’essente». 

Esiste, dunque, uno spazio umano e solo umano, in cui la prassi e l’azione non impongono più un piegarsi dell’uomo alla cosa: un ambito in cui la “reificazione” (cioè il divenire oggetto) esiste solo in senso molto relativo, sempre che esista; un “cono d’ombra” (o di luce, per così dire) in cui si rivela pienamente l’identità dell’uomo, sempre anche mediante il lavoro, ma non ai semplici fini di sopravvivenza o benessere. Il che conferma che l’importanza dell’uomo va ben oltre il mero sistema economico. 

Ora, come anticipato, la visione a favore di un recupero della consapevolezza del valore e della dignità dell’uomo nel lavoro non è solo marxista. Fioriscono ancora oggi, come ieri, realtà a sostegno del recupero della dignità piena del lavoro, contro il ritiro del valore della persona (o dell’individuo che dir si voglia) dalla fatica della sua azione quotidiana, che gli appartiene di diritto. Solo per citare l’altro ambito familiare a noi italiani, quello cristiano, si può dire che anche al suo interno la spinta in questo senso è forte, specie dopo il Concilio Vaticano Secondo (se ne possono trovare riscontri sia nel Catechismo che nella Gaudium et Spes; cfr. qui al cap. III). Se ne possono trovare riscontri sia nella Chiesa in generale che in realtà più particolari e relativamente nuove, seppur spesso aspramente contestate, come l’Opus Dei.

Di qualunque credo si sia e di qualunque convinzione politica, senza voler scendere in facili ecumenismi politicamente corretti, l’appello all’uomo occidentale resta comunque chiaro: è assolutamente necessario che egli riprenda consapevolezza della dignità che ha nel suo lavoro, che non può né essere accampato come un amorfo diritto, né essere ridotto a un mero fare guadagno.

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