Una terra migliore grazie ad imprese migliori


Una “terra nostra” migliore anche grazie ad imprese e mercati migliori?

Scommessa irrealizzabile o realtà?

Le imprese, e l’economia più in generale, sono spesso annoverate tra i responsabili dei mali ambientali che negli ultimi decenni stanno affliggendo il nostro pianeta. Tutti ricordano i noti quadri raffiguranti le prime imprese dopo la rivoluzione industriale: cieli grigi, strade sporche, città tetre e fumi plumbei che dominano l’aria. Per decenni, in seguito, le imprese hanno attraversato una fase in cui negavano i cambiamenti climatici in atto e il loro coinvolgimento in possibili fenomeni di riscaldamento globale. Tutto ciò ha infiammato l’opinione pubblica ambientalista contro le grandi aziende.

Tuttavia, una crescente complessità delle dinamiche competitive inter-aziendali e un rapporto di facciata sempre più critico tra le imprese e la popolazione hanno portato le aziende a cambiare il modello di gestione d’impresa, facendo così nascere nuove branche del managing, integrando sempre di più le questioni sociali e ambientali causa di conflitto. Ma andiamo con ordine.

Il primo grande stimolo per i mercati per imboccare un sentiero più green è arrivato dal protocollo di Kyoto, steso e sottoscritto nella città giapponese da 180 paesi nel 1997, ma entrato in vigore solo il 16 febbraio 2005. Tramite il protocollo di Kyoto gli stati si impegnavano in una considerevole riduzione delle emissioni di elementi inquinanti, per tentare di frenare il fenomeno del riscaldamento globale, (per informazioni dettagliate cliccare qui). Al trattato si oppose fermamente il movimento Global Climate Coalition, fondato nel 1989, che riteneva che il riscaldamento globale non solo fosse un fenomeno trascurabile, ma che non fosse dovuto alle sostanze che le grandi fabbriche emettevano. Il mondo economico non aveva ancora metabolizzato i cambiamenti in atto e soprattutto non aveva compreso appieno le possibilità economiche che ne derivavano. Tale fenomeno fu quasi isolato, e si arrestò nel 2002 con la chiusura del movimento (maggiori informazioni sul Global Climate Coalition).

Oggi, invece, si fa l’esatto opposto. Le grandi imprese spingono in direzione di norme sempre più stringenti per quanto riguarda l’emissione di gas serra (esempi possono essere General Motors, Alcan e molti altri); nessuna vuole dipingersi “grigia”: perché?

Un’inchiesta del giornale d’oltremanica The Economist identifica 2 possibili motivi: una pressione morale sempre maggiore da parte della popolazione, di cui si è accennato in precedenza, e una pressione  conomica dovuta dal fatto che i governi stanno sempre più prendendo la linea del “chi inquina paga” ,e che norme più restrittive consentono la facilitazione di cambiamenti e rinnovamenti dei capitali fissi  infrastrutture, macchine…) diventati negli anni ormai inefficienti.

Una nuova branca della gestione di impresa è nata in conseguenza a queste spinte: la Coporate Social Responsibility. Essa ha cambiato il modello di gestione d’impresa, integrando e valorizzando le questioni sociali e ambientali, per presentare le aziende sempre più pulite, sensibili e attente ai bisogni di tutte le persone, non solo a quelli aziendali.

Questo ha in parte contribuito alla seppur lenta diminuzione delle emissioni di Co2 nel mondo occidentale. In Italia, per esempio, nell’anno 2011 si è registrata una diminuzione del 4,2% rispetto all’anno precedente (fonte Ansa), che spinge il nostro paese verso il traguardo segnato dagli obiettivi imposti dal protocollo di Kyoto.

Una terra migliore anche grazie ad imprese migliori? Sono stati fatti passisignificativi, ma c’è ancora un gran pezzo di partita da giocare.

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