Il gender data gap – Come i nostri pregiudizi condizionano la raccolta e l’analisi dei dati


Nonostante i dati confermino il contrario, secondo l’immaginario comune l’uguaglianza di genere è già stata raggiunta nella maggior parte del mondo. Un’indagine del 2020 redatta dal Pew Research Center sulla percezione della parità di genere ci dice che il 71% delle donne italiane e l’84% degli uomini italiani pensano che le forze in campo siano già equilibrate.

La realtà purtroppo è ben diversa: il World Economic Forum sostiene che ci vorranno un centinaio di anni per raggiungere una parvenza di equità tra i due sessi. I problemi sotto gli occhi di tutti (differenziali retributivi uomo/donna e altissima disoccupazione femminile, non retribuzione dei lavori di cura, violenza sistematica sulle donne…) sono solo la punta di un iceberg alla cui base c’è un enorme lacuna: il gender data gap.

Ma che cosa si intende con questo termine? Davvero c’è una differenza di dati raccolti sugli uomini e sulle donne? E infine, è possibile che i nostri pregiudizi influenzino persino le scienze statistiche?

Che cos’è il gender data gap?

Il gender data gap, ovvero il divario sui dati di genere, si riferisce all’assenza di dati riguardanti il genere femminile. La raccolta, il processo e l’analisi dei dati che regolano le nostre vite e studiano i nostri bisogni non tiene sufficientemente conto dell’esperienza delle donne.

Gender data gap - assenza di dati di genere

(Credits: RF studio, Pexels)

I dati a volte non vengono raccolti, altre volte vengono raccolti ma non distinti o disaggregati dalle informazioni relative agli uomini. La situazione si aggrava ulteriormente quando si tratta di donne nere o donne con una disabilità: categorie che finiscono per confondersi in gruppi più ampi e che quindi non ricevono le adeguate attenzioni.

Il maschile universale regola il mondo

Già nel 1949 Simone de Beauvoir scriveva che “La rappresentazione del mondo come tale è opera dell’uomo; egli lo descrive dal suo punto di vista, che confonde con la verità assoluta”. La stessa storia dell’umanità, così come si è sviluppata e come ci è stata tramandata, è un enorme vuoto di informazioni sul genere femminile. A scuola studiamo grandi storie di condottieri, capi di governo, artisti, filosofi o scienziati, ma le storie di donne sono quasi inesistenti.

Ancora oggi regoliamo il nostro mondo con un criterio di universalità del maschile, dimenticandoci di metà del genere umano: il femminile è sempre e solo considerato una nicchia. Questo androcentrismo non sempre è intenzionalmente architettato, ma è la conseguenza di un modo di pensare che esiste da millenni, di una cultura radicata. Viviamo le nostre vite con un’infinita serie di convinzioni e pregiudizi impliciti (implicit bias), e progettiamo prodotti, servizi e leggi che generano un grave impatto di genere.

Pensiamo anche solo a come la categoria di libri scritti da donne viene spesso considerata separata! In libreria troviamo sezioni quali narrativa femminile, romanzi rosa, mondo femminile… Un sondaggio del 2014 ci ha illustrato come le donne comprano libri scritti da uomini che parlano di uomini, ma i lettori maschi spesso non fanno il contrario.

Risale a non molti anni fa l’episodio in cui il direttore di una Feltrinelli bolognese ha dichiarato in un’intervista che non ama particolarmente i libri scritti da donne, come se l’essere donna pregiudichi le capacità di scrittura.

Il problema linguistico del maschile universale

Nella costruzione sociale della realtà assume un’importanza fondamentale la lingua che parliamo: attraverso il linguaggio impariamo a decifrare il mondo e le persone intorno a noi. Secondo un’indagine del Forum economico mondiale del 2012, i Paesi dove si parlano lingue con generi grammaticali, le disuguaglianze di genere sono più marcate. Come la maggior parte delle lingue latine, quella italiana si basa infatti su un principio androcentrico: l’uomo è il parametro attorno al quale ruota l’universo linguistico.

La lingua nella mente di chi la parla non è neutra: è questo il concetto a cui si rifece Alma Sabatini quando nel 1987 scrisse Il sessismo nella lingua italiana, lo stesso che ha aiutato Vera Gheno a scrivere il suo Femminili singolari nel 2019. Basti pensare alla stessa parola “uomo”, che può significare sia “maschio della specie” che “specie stessa”, mentre la parola “donna” si riferisce soltanto alla “femmina della specie”.

Il maschile universale si manifesta anche quando ci rivolgiamo a un gruppo di persone: “tutti” per indicare “tutte le persone, maschi e femmine”.

Linguaggio sessista

(Credits: Tima Miroshnichenko, Pexels)

Le lingue che non hanno flessione di genere, come per esempio l’inglese, riescono più facilmente a definire un piano “neutro” di conversazione, senza dover ricorrere al maschile generico.

Molti studi ci dicono che, se viene utilizzato il maschile generico in una conversazione, si è più inclini a citare esempi di uomini famosi anzichè donne famose. O ancora, quando per l’assunzione di figure professionali si utilizza il maschile generico, è più raro che che le donne rispondano agli annunci di lavoro o che facciano bella figura nei colloqui.

Gli uomini sono coloro che decidono, in ogni ambito

Come già ribadito, il pregiudizio nei confronti delle donne – non sempre malevolo o premeditato – purtroppo è inevitabile e predefinito, in quanto conseguenza di un modo di pensare che esiste da millenni e di una cultura che ci appartiene. Le donne non sono mai abbastanza capaci o preparate, e per questo motivo viene loro limitato il potere decisionale. Tuttora è così e qualsiasi campo ne è affetto: cinema, scienza, politica, giornalismo, economia, urbanistica, letteratura… le donne sono sistematicamente escluse dai ruoli di potere.

Lo scorso luglio, all’evento dell’Espresso al Circo Massimo di Roma, la scrittrice Michela Murgia ha snocciolato un impressionante elenco di nomi ai vertici delle testate giornalistiche, della magistratura, dell’università, delle imprese italiane.

Indovinate un po’? Tutti maschi.

Una visione parziale delle cose

Essendo gli uomini a decidere, in ogni campo, ne risulta che maschile è anche lo sguardo che diamo alle cose intorno a noi. Di conseguenza, anche i dati raccolti risultano offuscati da un’unica visione.

Dal 1995 ogni cinque anni il Global Media Monitoring Project valuta l’immagine delle donne nei media (radio, tv, giornali). Nel 2010 e nel 2015 le donne erano solo il 24% delle persone rilevate nelle notizie di stampa, forse perchè – di nuovo – agli occhi degli uomini ai vertici le donne non sono abbastanza interessanti da essere raccontate.

In parole povere, se il direttore di una testata giornalistica è un uomo, difficilmente avrà una visione completa del vissuto femminile; così come se i dati che fornisci al computer sono incompleti, anche i risultati lo saranno.

Il mito della meritocrazia aumenta le disparità

Molti studi su pregiudizi istituzionalizzati ci mostrano come le studentesse e le docenti universitarie, rispetto ai colleghi maschi, hanno molte meno probabilità di ottenere fondi per la ricerca o un posto di lavoro, fissare appuntamenti con gli insegnanti, trovare un docente che faccia loro da mentore, farsi pubblicare su riviste specializzate. Le carriere nelle alte tecnologie, ovvero le carriere Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), sono il settore nel quale il mito della meritocrazia raggiunge l’apoteosi. Stando a un’indagine del 2016, infatti, la valorizzazione delle diversità risulta essere al settimo posto nella lista delle dieci maggiori priorità aziendali.

Nelle assunzioni gli uomini, convinti di scegliere i propri dipendenti in base a criteri oggettivi, a parità di requisiti tendono a preferire un candidato del loro stesso sesso. Basterebbe anche solo oscurare nome e foto del candidato o della candidata e assegnare un numero a ognuno, così da valutare il curriculum senza l’influenza di bias cognitivi impliciti.

Gender data gap orchestras

A partire dagli anni Settanta le musiciste donne sono sempre più numerose nella New York Philarmonic Orchestra, grazie al sistema delle audizioni cieche (Credits: Pascal Bernardon, Unsplash)

Così ha fatto la New York Philarmonic Orchestra, a partire dai primi anni Settanta, introducendo le audizioni cieche. Per una buona parte del secolo scorso, infatti, non ci sono state musiciste donne (salvo due temporanee eccezioni): è bastata l’introduzione di un paravento tra il/la musicista e la commissione giudicatrice per fare aumentare le donne, che all’inizio degli anni Ottanta erano già il 50% dei musicisti dell’orchestra.

La semplice idea di mettere uno schermo ha trasformato le audizioni in un processo (finalmente) meritocratico. Il pregiudizio maschile, spesso mascherato da neutralità di genere, è di nuovo un frutto del gender data gap. Alla luce di questi esperimenti, fa sorridere sentire ancora oggi frasi del tipo “se non ci sono donne a ricoprire quella posizione, è perchè forse non abbiamo trovato donne che ne siano all’altezza”.

Invisibili: un saggio sul gender data gap

Invisible women Caroline Criado-Perez

La copertina di Invisibili, di Caroline Criado Perez (Credits: Einaudi)

La tesi del gender data gap, o “vuoto informativo di genere” è ampiamente dimostrata nelle pagine di Invisible women, saggio del 2020 di Caroline Criado-Perez, dentro il quale si trovano innumerevoli esempi della continua e attuale esclusione delle donne. L’autrice dimostra con cifre alla mano come l’assenza di dati di genere influenzi praticamente qualsiasi cosa intorno a noi (con effetti più negativi che altro): dalla pianificazione dei trasporti pubblici alla progettazione dei quartieri residenziali, dal design di smartphone e smartwatch all’abbigliamento da lavoro, e così via…

Nonostante le donne rappresentino poco più della metà della popolazione, rimangono spesso ignorate nel sempre più importante mondo dei big data: ignorate nella misura della crescita economica, ignorate nella prevenzione, nella riduzione e nella gestione dei rischi di catastrofi, spesso con gravi conseguenze per tutte le categorie di persone, senza distinzione di genere.

In campo medico, la mancanza di studi sulle donne (ancora una volta perchè si considera il maschile come universale) spesso porta a diagnosi tardive o errate e a diverse reazioni ai farmaci. La progettazione urbanistico-architettonica, quando non tiene conto delle esigenze femminili, crea disagi e perdite di tempo e, nel peggiore dei casi, espone le donne a gravi rischi.

Il riconoscimento facciale: un caso di gender data gap

Joy Buolamwini, ricercatrice e fondatrice dell’Algorithmic Justice League, nel suo studio al Mit ha dimostrato come l’apprendimento automatico dei software delle principali aziende tecnologiche fosse influenzato da bias impliciti. Grazie alla sua analisi intersezionale Gender shades, ha scoperto che il sistema di riconoscimento facciale di Ibm poteva accuratamente indovinare il genere degli uomini dalla pelle chiara (il 99,7 % delle volte), mentre in pochi casi riconosceva il genere delle donne con la pelle scura (solo il 65.3% delle volte).

I software di riconoscimento facciale sono spesso utilizzati a fini di sicurezza, ed errori di questo tipo possono avere gravi ripercussioni per le persone nere. Può essere difficile anche solo sbloccare il proprio telefono, o, ancora più grave, potrebbero significativamente aumentare gli errori di identificazione dei criminali da parte della polizia.

L’attenzione di Buolamwini agli aspetti intersezionali di razza e genere hanno permesso la correzione di questi errori nel software di Ibm: quando ha ri-analizzato l’algoritmo ha felicemente scoperto che l’accuratezza del riconoscimento facciale delle persone nere era aumentata dall’88% al 99,4% per  gli uomini e dal 65,3% all’83,5% per le donne.

L’analisi dei dati di genere come cambiamento innovativo

I divari e le lacune nei dati di genere rendono difficile il monitoraggio del progresso e dei problemi di donne e bambine nel mondo. Dobbiamo spingere per cambi legislativi: se norme e leggi ci ricorderanno che le donne esistono e che dobbiamo raccogliere dati disaggregati, forse smetteremo di dimenticarci di loro. Fino a che l’analisi di genere non sarà impiegata universalmente (e resa prioritaria) nelle strategie statistiche e di raccolta dei dati, il divario continuerà a esistere. L’esperienza umana di un uomo bianco cisgender eterosessuale sulla quarantina non è e non può essere l’esperienza umana universale.

Gender data gap - assenza di dati di genere

(Credits: Lukas, Pexels)

Gli studi sociologici e psicologici sono ai primi stadi nel determinare come de-costruirsi, ma come individui possiamo almeno identificare le aree in cui i nostri bias cognitivi impliciti possono condizionare i nostri comportamenti e le nostre scelte. Stabilire specifiche procedure decisionali e riflettere sui rischi dei bias impliciti può impedirci di agire secondo credenze contrarie ai nostri valori.

Nell’arco di tanti anni passati in difesa della parità di genere, ho visto come i dati possono fare luce su tanti aspetti trascurati, possono far cambiare le normative e possono aumentare la trasparenza […]

(Alison Holder, direttrice dell’Equal Measures 2030)

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