Madamato e matrimoni misti – All’origine delle leggi razziali


Figlie mie, voglio raccontarvi una storia.

Tanti anni fa, il vostro papà e io non ci saremmo potuti sposare. Voi non sareste nate. Perché, mi chiedete voi? Perché l’essere umano adora prevaricare gli altri, minare le libertà altrui senza alcun motivo.

Papà e io, tesori miei, saremmo stati dei fuorilegge. Saremmo potuti finire in prigione. La storia della segregazione razziale è conosciuta, raccontata, ma solo quella d’Oltreoceano. Gli italiani preferiscono dimenticare, nascondere sotto il tappeto la propria storia.

Oggi, però, ho deciso di rinfrescare la memoria a tutti noi.

Il matrimonio nell’Italia fascista

Ogni società ha sempre messo in atto, per autoaffermarsi, una sorta di monopolio sulle questioni matrimoniali. Come? Normalizzando le unioni endogamiche (in etnologia si intende fra persone dello stesso gruppo) e impedendo quelle esogamiche (fra persone appartenenti a gruppi diversi). 

Lo stesso giorno in cui si sposarono Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, decine di coppie decisero di convolare contemporaneamente a nozze, proprio per celebrare quell’unione. Durante il fascismo, il matrimonio era visto come simbolo di affermazione sociale e missione patriottica.

Ma non tutti i matrimoni avevano lo stesso valore.

Il madamato: non solo Montanelli

Pratica diffusa nelle colonie italiane era il madamato: prender – nel senso letterale del termine madama fra le donne abissine conosciute in terra d’Africa. Il caso di Destà, la bambina comprata da Indro Montanelli nel 1936, ne è un triste esempio.

Si descrivevano le donne nere come accessibili, fertili, dai facili costumi. Era socialmente (e legalmente!) accettabile scegliersi una concubina. Gli italiani, per non andare in postriboli frequentati dalla gente locale, compravano una donna e la eleggevano a propria madama. Non propriamente una schiava, ma nemmeno una moglie. Si stipulava un contratto a termine, addirittura. Come affermò Montanelli stesso:

“(…) Una specie di leasing. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500) più l’acquisto di un ‘tucul’ cioè una capanna di fango e di paglia del costo di 180 lire”

Un listino prezzi per il quale non mostrò mai il minimo pentimento. Al contrario, difese sempre la sua posizione di uomo che, sotto tutela contrattuale, comprò una moglie come era usanza fare – all’epoca – perchè “in Africa è un’altra cosa”. Spiegò – addirittura – quanto fosse stato difficile gestire i rapporti sessuali con la stessa, in quanto l’infibulazione la rendeva insensibile.

Mannaggia, stava forse cercando di dirci che l’aveva comprata fallata?

Durante una trasmissione televisiva nel ’69, cercò di trovare delle scuse alle domande puntuali di Elvira Banotti, giornalista e attivista femminista, ma il risultato fu piuttosto imbarazzante.

Queste dichiarazioni sono l’ennesima volontà di sottomettere un popolo non solo economicamente, ma anche di umiliarlo, sfruttando il corpo delle donne. Una strategia per definire gerarchie e – come sempre – il potere.

Memoria e razza: i frutti del madamato

Celebrando la Giornata della Memoria, ricordiamo con amarezza le leggi antisemite del 1938. Non rammentiamo mai, però, che queste vennero precedute da numerosi decreti in tema di segregazione e discriminazione. E l’oggetto della questione, in questo caso, non furono i cittadini di origine ebraica.

Quando il madamato aveva cominciato a produrre i suoi frutti, Mussolini decise infatti di intervenire. Ufficialmente furono 20mila i figli nati da quelle unioni. Le cifre, tuttavia, potrebbero essere decisamente più alte: molti uomini fecero perdere le proprie tracce, rendendo impossibile il riconoscimento dei figli.

Fu così che iniziò una vera e propria propaganda contro i cosiddetti meticci: una missione, quella di Mussolini. Impedire che una razza mista potesse – in alcun modo – essere associata all’Italia. Non potevano esistere italiani neri.

Copertina de "La difesa della razza": una mano europea e una africana che si uniscono e fanno morire un fiore. Una chiara, agghiacciante allusione su quali sarebbero stati i risultati della mescolanza fra i popoli

Copertina de “La difesa della razza”: una mano europea e una africana che si uniscono e fanno morire un fiore. Una chiara, agghiacciante allusione su quali sarebbero stati i risultati della mescolanza fra i popoli (Credits: storicamente.org)

Faccetta nera, cambio di rotta

Faccetta nera, canzone composta nel 1935, è un esempio del paradigma della colonizzazione italiana in Africa. Inizialmente, i militari dovevano ambire alla donna nera: un premio per il loro coraggio in terre lontane. Un’esca per farli partire felici e accrescere il proprio senso di conquista.

Come racconta Igiaba Scego, Mussolini non approvava il testo. Anzi: lo detestava a tal punto da ritenerlo lesivo della dignità del popolo italiano.

La canzone è senza ombra di dubbio razzista (e oltremodo sessista, a riprova di quanta poca differenza ci sia tra queste forme di oppressione). Ma non la era a sufficienza per il Duce, che decise di censurarla per evitare che si veicolasse un’idea positiva di meticciato. Nei versi originali, infatti, la protagonista della canzone verrebbe etichettata come “bella italiana”.

Bisognava invertire la rotta: il corpo nero non doveva più essere desiderabile. Non si poteva rischiare di avere degli africani che rivendicassero la cittadinanza italiana. Così, il 19 aprile del 1937, l’Italia stabilì che il cittadino che aveva intrattenuto rapporti coniugali con una suddita indigena era punibile da uno a cinque anni di reclusione. E che i matrimoni misti fra italiani e sudditi delle colonie erano – ufficialmente – illegali.

Nacque, non a caso, Faccetta bianca: stessa melodia, ma testo diverso, volto ad esaltare la donna bianca, angelo del focolare. Ma, come ricorda sempre Igiaba Scego su Internazionale, “il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio attraverso l’abuso di un corpo nero passivo”.

“Questo matrimonio non s’ha da fare”

Non tutti i rapporti fra italiani e sudditi dell’Africa orientale erano vincolati dal madamato. Il caso in cui una donna bianca avesse voluto legarsi sentimentalmente a un africano veniva così commentato:

“(…) Ripugna allo stesso principio del prestigio di razza il far supporre, attraverso un testo di legge, che si senta la necessità di reprimere un fatto del genere”
(Camera dei fasci e delle corporazioni,
Atti della Commissione legislativa degli affari dell’Africa Italiana, Discussione 15 giugno 1939, p. 27).

In generale, le relazioni miste non erano minimamente tollerate da una società che si esprimeva in questo modo:

(…) L’accoppiamento con creature inferiori non va considerato solo per la anormalità del fatto fisiologico e neanche soltanto per le deleterie conseguenze che sono state segnalate, ma come scivolamento verso una promiscuità sociale, (…) nella quale si annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice. (…) Questo devono ricordare e devono volere gli italiani tutti (…) Roma fu dominatrice e moderatrice fra le stirpi più diverse elevandole a sé nella sua civiltà imperiale. Quando si abbassò per mescolarsi ad esse, cominciò il suo tramonto
(Tratto da un articolo del 1937 di Alessandro Lessona, Ministro delle Colonie)

In sintesi: se eri un uomo, potevi possedere carnalmente donne nere. Il rapporto doveva essere subalterno, una mera questione fisiologica, senza implicazioni di natura sentimentale. Se eri donna… non era neanche contemplata la possibilità di avere un compagno africano.

Un sessismo e un razzismo ripetutamente esplicitati nelle sentenze del tribunale di Addis Abeba. Qui, infatti, venivano giudicati coloro che si erano resi colpevoli di intrattenere legami coniugali con delle indigene.

Sentenza sul madamato del tribunale di Addis Abeba

Estratto da una sentenza sul madamato della Corte d’appello di Addis Abeba (Credits: novecento.org)

Razze e “scienza”

La propaganda a favore della purezza della razza vide il suo apice nelle riviste “scientifiche” tanto care al regime. Fra queste, nel primo numero de La difesa della razza, troviamo un articolo intitolato I bastardi, dedicato alle minuziose descrizioni di figli nati da unioni miste:

“Ecco i frutti dell‘immondo ibridismo

“Un altro risultato del rovinoso antirazzismo”

“I caratteri ariani sono stati sommersi da caratteri dominanti. L’individuo mostra nei capelli arricciati e nel naso largo e appiattito – per non parlare di altri caratteri, l’influenza ‘negride’”

Immagine di un soldato fascista in Africa, che abbiamo scelto come copertina del nostro articolo sul Madamato

Soldato fascista in Africa, anni Trenta (autore sconosciuto, pubblico dominio, foto tagliata)

Tale “dissertazione scientifica” si conclude con un invito alla riflessione:

” (…) speriamo che questi pochi esempi invitino gli italiani a pensare

Le leggi antisemite del 1938 furono, pertanto, un’estensione di una già collaudata strategia razzista e divisiva ben nota all’Italia.

Ricordiamo il madamato, studiamo il colonialismo italiano: decolonizziamoci

Ho cercato materiale sul colonialismo italiano nei miei libri di storia. In quello dell’ultimo anno di liceo, le pagine dedicate all’argomento sono due + un paragrafo (a voler esser precisi). Ci sono più pagine sul Giappone imperiale.

Comprendo la necessità di condensare i contenuti, ma su un volume di 723 pagine mi sarei aspettata qualcosa di più. Soprattutto considerando che il colonialismo italiano, ancora oggi, è alla base di molte discriminazioni che avvengono sotto i nostri occhi. Siamo talmente immersi in questo tipo di pensiero, da non renderci conto di quanti libri, film, riviste o giocattoli siano impregnati degli stereotipi che questo veicola.

Basti pensare ai libri per bambini che riportano, ancora oggi, descrizioni sull’Africa che ripropongono stereotipi alla stregua delle cartine di epoca romana “Hic sunt leones”.

Figlie mie, non possiamo stupirci che ci sia chi si sdegni che voi siate italiane. Siamo il risultato di un retaggio coloniale che, volenti o nolenti, continuiamo a portarci dietro come una pesante zavorra.

Un peso dal quale non riusciremo mai a liberarci, se non ne studieremo i contenuti, imparando a disconoscerli.

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