La pericolosità di #NotAllMen quando si parla di violenza sulle donne


In occasione della 21esima Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, tanti periodici e quotidiani hanno ripreso a parlare di quello che è uno stato di emergenza continuo che vive il genere femminile: sono fioccate le campagne di sensibilizzazione e i numeri sui femminicidi.

A tal proposito, qualche settimana fa, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un post su Instagram che titolava: La gelosia non uccide, gli uomini sì.

Prima e dopo: un confronto tra i due post di Instagram di Repubblica, che hanno scatenato i sostenitori del #NotAllMen

Prima e dopo: un confronto tra i due post di Instagram di Repubblica, che hanno scatenato i sostenitori del #NotAllMen (Credits: La Repubblica)

Parecchi individui di sesso maschile, sentendosi attaccati sul personale, hanno commentato questo post con frasi del tipo “Sì, ma non tutti gli uomini uccidono le donne!” oppure “Io non toccherei una donna neanche con un dito” o “Anche gli uomini subiscono violenze!”, rispolverando il famoso slogan #NotAllMen, letteralmente “Non tutti gli uomini”.

I commenti di questo genere sono stati talmente tanti da indurre i social media manager di Repubblica a correggere il titolo del post in La gelosia non uccide, alcuni uomini sì.

Alcuni commenti al post di Repubblica su Instagram. Tante parole, un solo concetto: #NotAllMen

Alcuni commenti al post di Repubblica su Instagram. Tante parole, un solo concetto: #NotAllMen (Credits: La Repubblica)

#NotAllMen, ma comunque un problema sociale

Secondo gli ultimi dati Istat, solamente durante il lockdown ogni due giorni una donna è stata uccisa in famiglia. I femminicidi quest’anno sono stati il 45% degli omicidi totali, e la maggior parte di essi è avvenuta tra le mura domestiche.

Non si parla dei singoli individui di sesso maschile, ma di una struttura che perpetra subordinazione, discriminazione e violazioni: un sistema ben radicato e molto nocivo. Con l’affermazione #NotAllMen, inteso come “Io non l’ho mai fatto”, si nega l’esistenza di un fenomeno sociale diffuso che è intorno a noi, e lo si sminuisce. Prendendo le distanze da questo tipo di generalizzazione, infatti, si corre il rischio di ridurre una questione strutturale a un piano personale, trasformando la sistematicità della violenza sulle donne in pura casualità.

Sicuramente non saranno tutti gli uomini a uccidere, violentare, abusare delle donne o fischiare al loro passaggio, ma sono comunque troppi, e in numero sufficiente perchè sia un problema sociale.

Dire #NotAllMen non ti renderà una persona migliore agli occhi degli altri

Insomma, è abbastanza ovvio che non tutti gli uomini uccidono le donne: se così fosse saremmo già sparite dalla faccia della Terra. E allo stesso modo è alquanto fastidioso sentirsi dire “Io però non lo faccio” – bravo! Vuoi una medaglia per comportarti da persona civile?

stop saying #NotAllMen

Basta con #NotAllMen (Credits: Maddalena Cerruti)

Come abbiamo visto, la violenza sistematica sul genere femminile esiste davvero. Ed esiste da sempre. Basti pensare che una donna su tre, in età compresa tra i 16 e i 70 anni, ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di abuso fisico o sessuale (si tratta del 31,5% delle donne!).

Nel 2014 la giornalista e scrittrice Soraya Chemaly, in risposta a #NotAllMen, ha dato il via all’hashtag #YesAllWomen, specificando che sì, non tutti gli uomini infliggono violenze alle donne, ma ogni giorno tutte le donne del mondo convivono con la minaccia della violenza maschile. In pochi minuti il tweet è stato ritwittato più di cinquemila volte.

Il gergo giuridico: uxoricidio e femminicidio

La violenza di genere è caratterizzata dal controllo e dalla sopraffazione dell’uomo sulla donna e si esprime attraverso pressioni psicologiche, abusi fisici e sessuali, coercizioni economiche. Si tratta di un fenomeno trasversale a tutte le classi sociali e a tutte le nazionalità.

La lingua italiana prevede già alcune parole che specificano quale sia la natura dell’omicidio o le caratteristiche specifiche della vittima (parricidio, fratricidio, matricidio, eccetera). Curioso pensare che, prima che venisse inventato il termine più ampio “femminicidio“, la parola che più si avvicinava al suo significato era uxoricidio (dal latino uxor, cioè moglie, letteralmente “omicidio della moglie”), anch’essa senza un vocabolo corrispondente maschile.

In gergo giuridico, infatti, uxoricidio viene usato non solo per indicare l’omicidio della moglie, ma per estensione anche l’omicidio del marito. Questo significa che, come già anticipato, non c’è mai stato bisogno di inventare un termine che si riferisse specificatamente a un fenomeno che non ha mai avuto una casistica così ampia: l’uccisione degli uomini da parte delle donne.

Perché non si parla anche di maschicidio?

Bisogna fare attenzione a non confondere, però, femminicidio e uxoricidio: quando parliamo di femminicidio ci riferiamo non solo a omicidi di mogli commessi da mariti, ma a una fetta ben più ampia di casistiche che vedono una donna uccisa da un uomo. Più precisamente, il femminicidio è l’uccisione compiuta nei confronti di una donna in quanto donna: il suo essere femmina è ciò che scatena l’azione criminosa. Si parla di femminicidio quando una donna viene uccisa perchè lascia il suo compagno, o perchè lesbica, o ancora perchè emancipata e indipendente… Non si tratta di femminicidio quando, invece, una donna muore uccisa durante una rapina o in un incidente stradale. Il movente dei femminicidi è limitare la libertà della vittima, o meglio ancora negare che questa sia una persona: con desideri, sentimenti, ambizioni, inclinazioni e capacità.

Molti si chiedono perché è stata necessaria l’introduzione di una nuova parola, femminicidio, per un crimine che alla fine è “un omicidio come un altro”. Semplicemente perché non è un omicidio come un altro. Dietro alla catena ininterrotta di donne uccise in quanto donne c’è un grande movente che va portato allo scoperto, un nemico che si annida in ogni tipo di cultura e società: è l’atteggiamento culturale dominante che considera una moglie, compagna, fidanzata, figlia, sorella – insomma una donna – come “qualcosa” da possedere e non “qualcuno” con pari diritti e dignità. Se la parola non vi piace, inventatevi un altro neologismo, troviamo insieme un termine più aggraziato e pertinente. Ma non facciamo finta che il dramma non esista.

Serena Dandini

A questo punto, la risposta al perché non si parli mai di maschicidio diventa più chiara: non esiste un termine specifico analogo per indicare i crimini ai danni della categoria “uomini in quanto uomini” perchè non esiste una uguale e opposta violenza sistematica femminile sugli uomini. Non si contano, cioè, tanti episodi da poter parlare di un fenomeno esteso come quello del femminicidio. Per questo non si può parlare di “maschicidio”.

L’eredità culturale del delitto d’onore

Abbiamo dovuto aspettare il 1981 per vedere abrogato l’articolo 587 del Codice penale sul delitto d’onore, che regalava un considerevole sconto di pena agli uomini che uccidevano una donna al fine di “salvaguardare il proprio onore”. Il danno all’onore di un uomo, come l’adulterio o un’umiliazione grave, veniva considerato una attenuante all’omicidio.

Oltre al delitto d’onore, la legge 442 ha abrogato un secondo istituto giuridico micidiale: il matrimonio riparatore (articolo 544). Questo strumento di oppressione femminile prevedeva la cancellazione della pena per stupro agli uomini che sposavano la loro vittima, condannando quest’ultima a una vita d’inferno.

In tema di violenza di genere sono stati fatti grandi passi avanti rispetto a quell’agosto dell’81, ma la mattanza delle donne e tutte le altre manifestazioni di violenza nei loro confronti continua indisturbata.

Sarà forse l’eredità culturale della nostra giurisdizione a impedirci di cambiare, nel profondo, la mentalità?

Ogni forma di discriminazione ha il suo #NotAllMen

Retoriche quali #NotAllMen esistono all’interno di ogni forma di discriminazione sistematica: vedasi, in primis, l’assurdo fenomeno del “All lives matter”, sorto in risposta al movimento Black lives matter, impegnato nella lotta contro il razzismo. È vero che “Tutte le vite contano”, ed è per questo che un messaggio simile, come #NotAllMen, può sembrarci così inequivocabilmente giusto. Ma per quanto sia vera, questa frase serve a farci dimenticare che nella realtà non tutte le vite contano allo stesso modo, ed è per questo che servono le battaglie per i diritti civili.

Un altro esempio calzante sono le affermazioni del leader della Lega, Matteo Salvini, in risposta alla legge Zan contro l’omotransfobia, approvata alla Camera dei deputati lo scorso 4 novembre e in attesa di approvazione al Senato. Salvini ha richiesto a gran voce una legge contro l’eterofobia, come se tutti i giorni assistessimo a violenze nei confronti delle persone eterosessuali e cisgender.

O ancora le tanto criticate “quote rosa”, purtroppo ancora necessarie ai fini di una corretta rappresentanza, ma spesso definite “antimeritocratiche” da chi da sempre ha una corsia preferenziale verso le posizioni di potere.

Come dovrebbe reagire un uomo?

Solamente il fatto che un numero spaventoso di donne abbia subìto un qualsiasi tipo di violenza da parte di un uomo nel corso della sua vita dovrebbe essere sufficiente per non creare polemiche quando si parla di femminicidio.

Noi donne abbiamo bisogno della vostra collaborazione: amici, padri, fratelli, fidanzati e tutti coloro che ora si possono sentire attaccati o accusati ingiustamente. Un degno alleato di questa battaglia amplifica le voci delle vittime e delle donne che sollevano il problema, analizza il proprio comportamento e non spegne il dibattito perchè in cerca di attenzioni o pacche sulle spalle.

Un momento di una manifestazione a favore dei diritti delle donne a Los Angeles

Un momento di una manifestazione a favore dei diritti delle donne a Los Angeles (Credits: Samantha Sophia, Unsplash)

I quotidiani come Repubblica che si correggono per non ferire gli animi offesi degli uomini dimostrano, ancora una volta, di non aver capito qual è il fulcro della questione: il problema della violenza contro le donne riguarda tutti, non solo in quanto oggettiva oppressione di metà della popolazione mondiale, ma anche come evidente problematicità dell’altra metà nell’adesione ai ruoli di genere.

Questi quotidiani sono gli stessi che quando raccontano i femminicidi si prodigano in lunghe descrizioni strappalacrime dell’omicida e delle sue azioni: un brav’uomo, un grandissimo lavoratore, una bravissima persona, un super creativo, un bravo imprenditore, un ottimo padre di famiglia, eccetera. Si tratta degli stessi quotidiani che, senza darle spazio o dignità, scaricano la responsabilità della violenza sulla vittima: che non doveva trovarsi lì, che non doveva vestirsi in quel modo, che non doveva comportarsi così…

Descrivendo queste violenze come raptus e azioni folli (malgrado succedano tutti i giorni!) rifiutiamo costantemente l’idea che ci sia un problema di genere collettivo. A titolo di esempio, gli omicidi, al di là del genere, si confermano come un delitto quasi esclusivamente maschile: secondo i rapporti annuali sulla criminalità del Ministero dell’Interno in più del 90% dei casi sono compiuti da uomini.

Come andrebbe raccontato un episodio di violenza verso una donna?

Nella narrazione mediatica della violenza di genere, il comportamento maschile viene spesso descritto come conseguenza di quello femminile: lui l’ha uccisa, ma lei l’ha lasciato; lui l’ha violentata, ma lei era da sola per la strada di notte. Raccontare in questi termini un fatto violento ai danni di una donna trasmette un giudizio negativo su di lei, e ne limita fortemente la libertà in quanto persona.

Gli episodi di violenza di genere derivano, in realtà, dalla volontà di controllo e subordinazione: la donna non è concepita come un essere pensante e desiderante, ma come un oggetto di proprietà dell’uomo. Il femminicidio, come già ribadito in precedenza, scatta quando l’uomo è incapace di accettare la scelta della sua partner di porre fine alla relazione.

La testata giornalistica dovrebbe quindi scegliere una linea da seguire e adeguarvi il linguaggio e il racconto: scelgo di empatizzare con l’assassino e di trovargli una serie di scusanti, romanzando la sua vita e descrivendolo come un uomo qualunque in preda a un momento di sconforto? Oppure scelgo di dare dignità alla vittima, raccontando la storia con i suoi occhi?

Cambiamo le regole del gioco

Si dimostra sempre più urgente la necessità di un’educazione sentimentale e sessuale, svincolata dai tradizionali ruoli di genere che ognuno di noi ricopre all’interno della società, e basata sull’empatia. Dobbiamo ripensare a ciò che attribuiamo alla mascolinità, alla femminilità e alla divisione dei ruoli all’interno della famiglia; dobbiamo andare oltre ai modelli eteronormativi e binari che ci raccontano che la realtà concepibile è solo una (ad esempio: se nasco maschio non posso che essere eterosessuale e comportarmi “da maschio”).

Forse solo partendo dalle relazioni affettive riusciremo a decostruire una cultura fondata su rapporti di dominio, arginando fenomeni che si ripetono continuamente quali l’oggettificazione del corpo, la limitazione dell’individualità, della visibilità e dell’autorevolezza femminile e limitando gli episodi di violenza.

Ad oggi, il primo passo che ognuno di noi può fare è ascoltare. Ascoltate le vittime delle violenze, ascoltate le vostre amiche, sorelle, fidanzate, colleghe, mamme, nonne, zie… amplificate le loro voci. Una maggiore consapevolezza sulle questioni di genere è l’inizio di un percorso collettivo di rinascita.

3 Comments

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  1. Francesca Delucchi

    Molto bello: ben scritto, esprime concetti chiari senza cadere nella trappola dei luoghi comuni. Finito di leggerlo vorresti leggerne ancora… complimenti Maddalena Cerruti

  2. BUBU

    aberranti entrambi i titoli de “La Repubblica”. Alimentare la battaglia fra sessi non fa bene a nessuno. Sarebbe come dire che tutti gli islamici sono terroristi e tutti gli Italiani sono mafiosi. Nessuno dei due atteggiamenti aiuta a risolvere il problema.

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