Luci e ombre del sogno americano


Colgo l’occasione della pubblicazione di due interessanti articoli, di Aldo l’Erario e Chiara Tadini,  per condividere con i lettori di Dissonanze alcune riflessioni in merito al modello di società proprio del “sogno americano”.

Fin dalla sua nascita, con la dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776, la nazione federale statunitense è fondata su solide basi libertarie. Con il suddetto documento, i “padri fondatori” fecero un immenso passo avanti rispetto ai canoni culturali dell’epoca, in particolare con la qualificazione di libertà e ricerca della felicità al rango di diritti fondamentali degli uomini di ogni epoca.

Conferire a ciascuno la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni è forse uno degli obiettivi ultimi di ogni civiltà esistente[1]: al cuore del sogno americano vi è proprio un tipo di società nella quale sia possibile conseguire i propri obiettivi qualunque sia la condizione di partenza. Tutto ciò comporta, naturalmente, un ben congegnato progetto di sviluppo materiale e sociale. Senza addentrarsi in più intricate precisazioni socio-economiche, possiamo riconoscere che, nel caso americano (o, più genericamente, occidentale) tale progetto si sviluppa sulla direttrice capitalistico-liberista. L’economia statunitense, di fatti, pur avendo visto avvicendarsi periodi di più o meno marcato intervento statale, resta fondamentalmente ancorata alla “fede” nel libero mercato.

Il suddetto modello di sviluppo non si compone, ad ogni modo, del solo “laissez faire”, ma si promuove e si alimenta sulla ricerca di una crescita perpetua della produzione. Essa indubbiamente può, di fatti, offrire maggiori possibilità ai cittadini; tuttavia, il cambiamento culturale che negli ultimi decenni ha interessato gran parte del mondo “sviluppato” pare suggerire l’esistenza di alcuni rischi insiti in tale modello di sviluppo. A mio parere, vi sono due criticità che vale la pena considerare.

La prima attiene al concetto di crescita economica in sé, intesa come aumento del prodotto interno lordo. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le voci, più o meno autorevoli, levatesi per mettere quantomeno in dubbio tale assunto di base: è possibile sostenere per un tempo indefinito la crescita economica di ogni stato del globo? Se si, sotto quali condizioni? Sembra superfluo ricordare gli innumerevoli dibattiti che di recente si sono formati attorno alla questione demografica o a quella alimentare, o ancora a quella energetica ed alla connessa problematica del cambiamento climatico. I diversi summit delle Nazioni Unite tenutisi negli ultimi lustri riguardo ai suddetti argomenti, salvo rare eccezioni (si veda Kioto), continuano a rimanere eventi tutto sommato marginali, non manifesti alla pubblica opinione quanto, ad esempio, i vertici del G8, durante i quali si discute dell’implementazione di nuove strategie macroeconomiche.

Ad ogni modo, del presente argomento ho già accennato in altri articoli; rispetto ad esso la domanda fondamentale rimane “può un sistema dinamico crescere all’infinito essendo confinato in un sistema finito?” [2]

Altra e diversa materia di discussione è invece quella della prosperità sociale. Conferire agli individui enormi possibilità di azione non comporta necessariamente renderli felici, ma semplicemente fornire loro maggiori strumenti. In uno splendido articolo edito dal Time il 30 ottobre 2008, lo scrittore nigeriano Ben Okri, nel riflettere sulla crisi economica, afferma: “Now it is necessary to look at this crisis as a symptom of things gone wrong in our culture. Individualism has been raised almost to a religion, appearance made more important than substance. Success justifies greed, and greed justifies indifference to fellow human beings.”

Tali parole riassumono molto efficacemente quello che è uno dei più grandi rischi insiti nell’applicazione pedissequa del modello economico liberista. La scienza economica, grazie ai contributi di svariate menti di tutto rispetto, si è fatta carico di dimostrare come il modello del libero mercato sia in grado, partendo dalle preferenze dei singoli individui (supposti, questi, perfettamente razionali e dediti alla massimizzazione della propria “utilità”) di generare il più alto livello possibile di benessere materiale collettivo[3]. In altri termini, attraverso rigorosi teoremi è stato possibile dare forma alla celebre “mano invisibile” di Smith. Tuttavia, lo stesso scrittore scozzese, in diversi passi della sua opera “The wealth of nations” , si preoccupa di specificare alcune condizioni imprescindibili per il funzionamento di tale meccanismo, giustificando l’intervento dello stato in assenza di esse. Anche premio nobel Joseph Stiglitz, in una delle sue ultime pubblicazioni,  “Freefall”, si preoccupa di mostrare come, modificando i sofisticati modelli di cui sopra includendovi reali “perturbazioni” (ad esempio,asimmetria informativa o piccole deviazioni dalle “regole del gioco”), l’esito possa essere non ottimale.

Al di là del funzionamento o meno di tali modelli, può essere opportuno riflettere sulle conseguenze morali che l’implementazione degli stessi sembra avere avuto sulla civiltà odierna. Giustificando l’individualismo, l’avarizia e l’ingordigia in nome del progresso e della crescita economica, rischiamo di lasciare in secondo piano la cura del prossimo, raffreddando pericolosamente relazioni di amicizia e parentela ed indebolendo sempre più quelle reti sociali così profondamente congeniali al benessere umano.  Lo stesso Barack Obama, nel corso di un discorso tenuto a NY nella primavera del 2008 (ossia prima che la crisi mostrasse i propri effetti) a New York affermò “credo che tutti noi, presenti qui oggi, possiamo riconoscere che abbiamo perduto quel senso di prosperità condivisa”.

Saremmo disposti a rinunciare alla piena realizzazione della vita umana in nome dell’aumento della produzione? Molto probabilmente non si tratta di una scelta drastica: forse non sarà necessario rinunciare al livello di benssere raggiunto, ma per indirizzare l’umanità verso uno sviluppo sostenibile e condiviso occorre un cambio di direzione, innanzitutto culturale, da effettuarsi con coraggio. Non si tratta di cambiare la natura umana, ma di valorizzarne aspetti finora spesso trascurati, quali l’altruismo o il desiderio di spendersi per una causa più grande, rispondendo alla sete dell’infinito cui anela il cuore di ognuno di noi.  

 

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[1]Non per niente, Amartya Sen, professore di economia e filosofia ad Harvard, propose il metodo delle “capacitazioni” per la misurazione del benessere.

[2] In questo senso, si ritiene che tale possibilità possa essere fornita dal “decoupling”, ossia la capacità di ottenere gli stessi beni utilizzando meno risorse, confidando nel progresso tecnico. I dati riportati da Tim Jackson in “Prosperità senza crescita” sembrano suggerire che, almeno negli ultimi decenni, tale processo non si sia attuato a sufficienza.

[3] o meglio, un livello di benessere dato il quale non sia possibile migliorare la situazione di alcuno senza privare qualcun altro di parte delle sue risorse.

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