Geopolitica: Polansky e l’impero che non c’è


Se avete occasione di leggere L’impero che non c’è di David Polansky, magari come testo a scelta per un esame di storia contemporanea all’Università, fatelo. Davvero: è un libro molto divertente. Perché? Semplice: l’autore sostiene che gli Stati Uniti d’America, in realtà, non abbiano geopolitica. Nessun intento imperialistico. Nessuna guerra interessata. Basi militari in tutto il mondo per controllare la propria egemonia? Scordatevelo, sono lì per altruismo. Prima però di darsi a grasse risate, potrebbe essere interessante capire la tesi di questo libro. Perché in fondo non è del tutto campata in aria, e ha invece un fondo di verità.

Quanto meno, la lettura consente di capire come ragiona un americano. Il giovane politologo David Polansky, che vive in Italia e collabora con la rivista di geopolitica Limes, ha infatti concepito un libro a uso e consumo di noi italiani. Perché agli europei non entra mai in testa una cosa: che il modo di pensare di uno yankee è di una semplicità sconvolgente.

L’uomo della strada americano ha un modo di concepire la leadership mondiale del proprio Paese con grande linearità: non dico proprio distinguendo buoni e cattivi, ma quasi. Nessuna dietrologia, insomma, per i cowboy cresciuti nelle praterie sconfinate del Midwest: e questo all’europeo sembra un modo di fare ottuso. Ma andiamo con ordine.

Polansky individua due grandi linee di forza del pensiero americano in politica estera: quella di George Washington e quella di Thomas Jefferson. Il primo presidente degli Usa era grande fautore del più totale isolazionismo: le colonie ce l’avevano fatta, e ora avevano una repubblica basata su fulgidi valori illuministici in un continente tutto nuovo e (quasi) deserto in cui espandersi.

Perché dunque andare a complicarsi la vita litigando con i genitori europei, così corrotti dalla loro politica estera fatta di equilibri e sotterfugi? Difendere la libertà è difendere l’isolamento. Jefferson, invece, era più idealista: il gigante della libertà e della democrazia era nato e doveva andare incontro al suo destino di poliziotto del mondo. Gli ideali della rivoluzione andavano portati ovunque.

Da qualsiasi parte la si guardi, la situazione americana era – ed è – effettivamente assai diversa da quella cui siamo abituati noi europei. La nostra politica estera è fatta di nazioni che premono una sull’altra, in uno scenario fatto di tanti Machiavelli, Bismarck e Churchill. Al contrario, la politica americana è fatta di frontiera e ideali.

Così, per l’americano, la linea isolazionista – più attenta a curare da vicino i suoi interessi – si mescola a quella idealista, che al contrario getta gli Stati Uniti in politica estera. Nessuna delle due è però in grado di insegnare a un popolo come funziona davvero la geopolitica, che è fatta di obiettivi prosaici e di convivenza fra popoli, e quindi non si nutre né di ideali né di continenti sterminati privi di Stati limitrofi.

Polansky si sofferma poi a considerare come queste due tendenze si siano declinate negli anni, durante i quali le marginali e lontane tredici colonie sono diventate l’entità statale a capo degli equilibri della Terra. E così figure come Theodore Roosevelt emergono come rare eccezioni di realismo politico, mentre i Quincy Adams e i Thomas W. Wilson confermano l’idealismo più fulgido e a tratti miope.

In uno scenario come questo, il protendersi degli Stati Uniti sugli equilibri globali nasce quasi fortuitamente. La Prima guerra mondiale rappresenta la più importante fra le prime uscite degli Usa dall’isolazionismo: con essa non si parla più di dottrina Monroe e di controllo sulle sorti del continente americano. Gli States prendono infatti, per prima volta, la risoluzione di andare a “sconfiggere il cattivo”, che nel caso sono quegli imperi centrali portatori di valori così diversi da quelli del democratico Stato liberale. Subito dopo, di nuovo l’isolamento.

La Seconda guerra mondiale è quella che però sancisce la definitiva nascita di un impero americano, un impero che c’è e non c’è. E questo non tanto per l’entità della vittoria sul nazifascismo, ma per l’incancrenirsi della tensione con la controparte comunista: e mentre la Russia staliniana coltivava eccome interessi di geopolitica, gli Usa – secondo Polansky – ricoprivano un ruolo di polizia globale cui non erano avvezzi. In questo senso, il Vietnam rappresentò la vera crisi: per prima volta il monumento statale della libertà era, agli occhi dell’opinione pubblica, coinvolto in una guerra ingiusta.

Polansky individua in questo la causa dell’avvento di una insolita realpolitik nixoniana, dalla quale il fronte politico americano non ha più ritrovato un orientamento sicuro. Infatti, prima con Reagan e poi – dopo la caduta del comunismo – con Clinton, gli Stati Uniti si sono ritrovati coinvolti in conflitti di strana natura, senza un indirizzo preciso (addirittura nella Somalia priva di alcun interesse, nel ’94). Solo la “guerra contro il terrore” dei neo-conservatori e di Bush, dopo il 2001, sembra aver ridato un indirizzo ai nostri disorientati crociati.

Eccosi dunque ad oggi, in compagnia dell’impero che non c’è. Cosa pensare riguardo alla verità di questa visione, lo lascio ai lettori. E a chi ha voglia di approfondire, ma non di affrontare il mattone Diplomacy di Henry Kissinger, ripeto: leggete il libro!

1 comment

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  1. Fabio Pirola

    E’ molto interessante l’analisi di questo politologo, anche perché sono gli USA stessi a farci credere quello che vogliono di loro, mediante l’ormai usuale bombardamento mediatico a tutto tondo made in USA. Dovremmo iniziare a fare una cosa semplicissima: guardare con occhi europei alla situazione americana e non guardare con occhi americani alla situazione europea.

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