Teorici Critici


Viviamo come nomadi provvisoriamente stanziati in queste fosche città continentali. Gli abiti sono solo in apparenza sobri, ma nelle loro linee minimali, sono l’antitesi della veste monacale che pure è monocroma. La nostra esistenza terrena è come in sordina, viviamo di luce riflessa, di attese e delusioni (altrui), individualità forti e corrosive. Lavoriamo per l’avvenire, lavoriamo per elevare l’uomo dal suo stato d’inferiorità permanente che è lo stato naturale, da questo impaccio dobbiamo trarlo fuori affinché davvero la sua libertà sia compiuta – e non per uno o per pochi, ma per tutti. E’ infatti vano auspicare, come fa quel francese di cui non ricordo il nome, che l’uomo autisticamente viva la propria minuta libertà in un palcoscenico interiore in cui è solo,  insieme compositore e attore principale. Quella è la libertà di chi è prigioniero. E noi non vogliamo nemmeno che vi siano più prigioni.

Con macchinoso borbottio le code di autoveicoli e carrozze si incastrano in viottoli e si fermano impantanate, in una claustrofobica ragnatela di grigi palazzi, uffici, affiancati ad insegne sgargianti che assomigliano in tutto a volti di clown. Cupe sono le sere, ancora più cupe, quando calano su questi sciami di uomini, ammassati nei loro tuguri. Serenamente rassegnati. Una voce rassicurante dalla radio che elenca con atona impostazione le notizie del giorno accompagna le loro cene. Gustav Stresemann garantisce  per ora alla forestiera d’Europa la sua effimera stabilità, ma essa è destinata, è evidente, a collassare presto o tardi sotto le spinte di reduci ed altri simili pazzi. Perché la guerra ha portato l’angoscia fin nelle case dei contadini, dove finora aveva alloggiato una precaria e consolatoria innocenza: una volta innescata questa miccia, non vi è mente brillante che possa impedire nuove esplosioni. Ma questo, persino questo è il progresso, quello che lo spirito dell’uomo è, e il movimento dialettico non possiamo certo arginarlo finendo poi nella regressione e nello spirito reazionario che vuole tornare ad antichi fasti oramai sepolti. La ragione si spinga oltre, sempre oltre. Segua le avanguardie, la dodecafonia e il vento gelido di Russia.

Ma la ragione deve pur badare al concreto, e noi, uomini d’alta cultura, non siamo tra quegli accademici che sostengono che tutto è conciliato e che in questo ha una sua logica ineccepibile. Noi manteniamo vivo il conflitto, configgendo per primi (nell’intelletto) con il mondo e le sue leggi. Per questo abitiamo questi luoghi infernali – abbiamo infatti una abitazione in campagna in cui ci rifugiamo talvolta, specie in periodo di bella stagione – il nostro posto, il nostro ruolo, dal quale non vogliamo fuggire, è qui, tra i molti miserabili di questo mondo. Dalle università cerchiamo il canto che sollevi l’umanità. Come i santi che si degradano nella carne per ascendere, noi logoriamo lo spirito nel concetto, come solo gli uomini di pensiero sanno fare. Se vi sia una qualche ascesa in questo, lo diranno le condizioni storiche che ci succederanno, noi ci rimettiamo al servizio della verità.

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Momento del dubbio iperbolico: forse verrò reificato anch’io? Forse il materialismo dialettico mi schiaccerà come una tenaglia, essendo questa la mia sorte di borghese, di essere fatto a brandelli da una massa urlante? Certo sarebbe una nobile fine. Da martire negativo: colui che va sbranato proprio perché fu liberatore. Questa sorte possibile mi fa balzare il cuore in petto. Ma – che il diavolo mi colga se questi non sono sogni beffardi, in cui si nasconde insidioso un complesso di quelli che amava smascherare Freud? Ad onore di verità, dovrei andare a confessarmi da uno psicanalista? Oppure, occupandomi di psicologia, potrei costruire una teoria che dia meglio conto dei miei stessi comportamenti. E dove conduce tutto questo dire? Questo movimento di concetti che sembrano avere vita propria, fuori della mia testa? Essi mi appaiono ora che sono qui ad abbozzarli sul foglio tante elucubrazioni riflessive che a loro volta come per inerzia finiscono per divorarsi, proprio come quel cannibale che rimasto solo su una piccola isola incominciò a divorarsi partendo dai piedi.

O, se vi fosse una preghiera per questi nostri tempi moderni, chiederei a qualcuno di salvare il mio animo da questo vuoto abissale, ma chi invocare se il nominalismo sottrae l’oggetto stesso? Mi pare proprio di essermi perduto in un labirinto che io stesso ho ordito. La ragione non sembra più il filo d’Arianna, ma questo stesso labirinto, e io d’un tratto non sono che un bambino, la mia serietà compita svanisce e io mi trovo a compiangere me stesso – ma non vi era altra via, mi scuso fra me e me.

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Disperazione: e va bene, sarò forte, tirerò avanti, ma almeno lasciatemi vedere le montagne – le montagne, un ultima volta! Poi verrò, certo, e aprirò con volto terreo ed un discorso un poco disincantato questo maledetto nuovo anno accademico. E – un dio non voglia – qualcuno sparga un po’ di sangue in questa occasione istituzionale, qualcuno ci mostri la verità, e non ci abbandoni in questa anestesia premeditata ed autocosciente. Eccola qui che ritorna, tutta la cattiva coscienza, la filantropia assassina senza sangue. Cito a memoria quelle parole che fecero male e gravano ancora su molti – e graveranno in futuro come colpa inespiata su chi sa:

“Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso.”

4 Comments

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  1. Lorenzo

    Mi fa piacere che hai apprezzato! In realtà l’ho scritto come “sfogo” subito dopo un esame in cui ho studiato vari filosofi e intellettuali tedeschi. Molti riferimenti celati qua e là sono derivati da quegli studi…ma il filo conduttore si capisce anche senza, spero!

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