I promessi sposi – Davvero bisogna leggerlo ancora?


Non importa quanto entusiasmo ci metterete nella vostra introduzione a I promessi sposi. Né importa quali splendide metodologie didattiche prevedrete di utilizzare.

Potrete inventarvi di tutto – la visione dei Promessi sposi in 10 minuti degli Oblivion, quella del Trio Lopez-Marchesini-Solenghi, o del musical, o di una delle tante trasposizioni cinematografiche, una recita, una gita su quel ramo del lago di Como. Magari potreste portare una reliquia di Manzoni, racimolata chissà dove. Oppure potreste chiedere a un pover’uomo che di cognome fa Manzoni di spacciarsi per il pro pro pro nipote dell’originale. Ma tutto questo non avrà importanza: le Faq saranno sempre le stesse.

La monaca di Monza e Lucia (rispettivamente Massimo Lopez e Anna Marchesini) nella parodia dei Promessi sposi

La monaca di Monza e Lucia (rispettivamente Massimo Lopez e Anna Marchesini) nella parodia dei Promessi sposi (Credits: Rai)

– Ma il libro va letto tutto?

– Non mi ricordo: poi, alla fine, i promessi sposi si sposano?

– Perché dobbiamo leggerlo?

E ho tralasciato tutte quelle trame tanto fantasiose quanto improbabili di questo amore sfortunato tra Romeo e Giulietta (sì, avete letto bene). Ma in mezzo a tale giungla di osservazioni più o meno utili al progresso dell’umanità ce n’è una che ogni anno mi punzecchia. Perché con gli adolescenti bisogna essere onesti.

Perché leggere I promessi sposi ancora oggi?

Il primo motivo per cui si legge Manzoni nelle scuole da almeno 160 anni è perché è il primo romanzo storico italiano. “E grazie tante!”, rispondono i più attenti. “Il Regno d’Italia nasce il 17 marzo del 1861 quindi per forza di cose questo è il primo romanzo storico italiano: prima non c’era un’Italia!” Sì, è vero. Ma solo in parte.

Innanzitutto, il genere. Non c’erano romanzi storici in Italia prima di questo. Neanche romanzi, se si escludono quelli epistolari (come Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo) o autobiografici (come la Vita di Vittorio Alfieri). Il romanzo è un genere che nell’Ottocento va di moda perché è il simbolo della nascente borghesia. I borghesi amano circondarsi di libri – talvolta anche leggerli. Hanno bisogno di scalzare anche sul piano culturale quell’aristocrazia così retrograda che la Rivoluzione francese aveva cercato di eliminare.

Gli aristocratici erano stati per secoli i detentori della cultura, e quasi gli unici possessori di libri (basti pensare all’incredibile biblioteca del padre di Giacomo Leopardi). Ora è il momento della borghesia, anche al femminile: quanti libri verranno scritti per loro, quante storie a puntate verranno pubblicate sui vari giornali proprio per intrattenerle! E quante donne inizieranno a scrivere (emblematica è la vicenda di Mary Shelley e il successo del suo Frankenstein!).

Un romanzo, dunque, un soffio di novità in un’Italia soffocante. Storico, perché, tra le altre cose, siamo in pieno Risorgimento e Manzoni è fortemente patriottico.

Il primo romanzo storico italiano: I promessi sposi

Ma è l’aggettivo in appendice, italiano, su cui vorrei porre l’attenzione. Certo, è il primo romanzo italiano perché, formalmente, è il primo riconosciuto dal neonato Regno d’Italia. Ma è italiano soprattutto perché è scritto in italiano. Banale, dite? Forse non così tanto in una terra in cui tutti usavano dialetti differenti e l’italiano letterario era conosciuto da una nicchia di persone.

Una scena dei Promessi sposi Rai del 1989

Una scena dei Promessi sposi Rai del 1989 (Credits: Rai)

Manzoni stesso racconta che per scrivere il romanzo ha faticato molto (ci ha impiegato quasi vent’anni!) perché non trovava le parole. E non si riferisce al terrore della pagina bianca: letteralmente non le trovava. Prima infatti gli veniva in mente la parola in dialetto milanese, poi la corrispondente in francese. Con un po’ di pazienza, trovava la traduzione latina. E solo con uno sforzo incredibile riusciva a risalire alla parola in italiano.

Sciacquare i panni in Arno: storia di una revisione faticosa

Tutta questa fatica si riflette nella storia di composizione dell’opera: dalla prima edizione, Fermo e Lucia, all’ultima, la Quarantana, passano quasi vent’anni. Anni di rifacimenti, di cancellature, di semplificazioni, che terminano con la famosa isciacquatura dei panni in Arno, cioè con la correzione del testo da parte di amici toscani così da renderlo fruibile per una buona fetta di popolazione borghese.

Perché Manzoni è così fissato con la lingua italiana? Perché è consapevole che una nazione abbisogna di una lingua comune: se si vuole rendere l’Italia uno Stato, la lingua comune è uno dei primi obiettivi da raggiungere. E il risultato sarà talmente straordinario che il suo libro verrà utilizzato nelle scuole fin da subito, proprio allo scopo di imparare l’italiano.

Manzoni e i programmi scolastici

Quindi Manzoni scrive I promessi sposi per inserirlo nei programmi scolastici? Beh no, non proprio, ma il risultato è stato questo: sono 160 anni che si legge il suo romanzo nelle scuole.

Milano, statua di Alessandro Manzoni - Foto di Vincenzo Paolella

Una statua di Alessandro Manzoni a piazza San Fedele, Milano (Credits: Vincenzo Paolella, Creative commons)

Se però in passato tale scelta politica aveva un scopo ben preciso, oggi la stessa scelta sembrerebbe anacronistica perché ci sono molti romanzi più vicini a noi che potrebbero fornire alcune chiavi di lettura del nostro presente – a partire dal Neorealismo e da tutta quella letteratura nata dopo la Seconda guerra mondiale e dopo le riforme scolastiche degli anni Sessanta.

Però, proprio come Dante, Manzoni è un autore con il quale prima o poi bisogna fare i conti. Quando un lettore approccia I promessi sposi si confronta indirettamente anche con i duecento anni di storia che ci separano dal testo, duecento anni ricchi di commenti critici, interpretazioni, rifacimenti, citazioni più o meno evidenti. Insomma, I Promessi Sposi sono un classico, con tutte le complicazioni che tale termine si porta dietro – la sua influenza nella cultura e nelle coscienze di ciascuno.

Un libro impegnativo, quindi, per tutto ciò che ha rappresentato e che rappresenta tutt’oggi: ma cosa potrebbe ancora dare, oggi, nel 2020? Sì, certo, oltre agli ottimi suggerimenti su come affrontare una pandemia.

Manzoni e noi

“Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” dice Calvino. Ed è proprio vero. Un classico innanzitutto va letto – sì, tutto – perché leggendolo si ritrova sempre qualcosa di noi. Manzoni va letto perché è un narratore straordinario e un attento osservatore delle persone e dei paesaggi.

Di lui si possono amare tutte quelle splendide descrizioni paesaggistiche sempre soggettive, sempre filtrate dagli occhi di colui che guarda. Renzo ammira il Duomo di Milano, padre Cristoforo osserva il palazzotto di don Rodrigo, Lucia recita la più bella poesia in prosa mai scritta, l’Addio monti, Manzoni stesso decanta le bellezze di quel ramo del lago di Como.

E, leggendo quelle descrizioni, ci rendiamo conto di come anche noi abbiamo un luogo che chiamiamo casa, anche noi ci siamo emozionati al riconoscere i passi di qualcuno. E anche noi attribuiamo dei tratti agli oggetti sulla base di chi li possiede, proprio come padre Cristoforo, quando accede al palazzotto di don Rodrigo.

I personaggi manzoniani

Di Manzoni poi si possono amare i personaggi. Tutti i personaggi, da quelli principali a quelli secondari, sono vitali: ognuno è persona prima ancora di essere personaggio. Vi ricordate Menico, il ragazzino mandato dalla Provvidenza (e da padre Cristoforo) che viene scambiato dai bravi per Lucia? Lui sarà convinto per tutta la vita di essere scampato al diavolo quella notte!

Quanta energia possiede il conte Attilio! Compare in così pochi capitoli – spesso saltati – ma per certi aspetti è più credibile dello stesso cugino, don Rodrigo. Lui, caratterizzato da quella risata beffarda che preannuncia il suo destino – e quello di un’epoca, il Barocco, così ricco di contraddizioni – e che richiama così tanto il protagonista pirandelliano di Così è (se vi pare), Lamberto Laudisi.

E che dire della madre di Cecilia, che pone la sua piccola sul carro dei morti con una dignità tale per cui gli stessi monatti, sgarbati e incivili, assistono alla scena attoniti e rispettosi, con il cappello in mano?

L’elenco dei personaggi potrebbe essere infinito.

Don Abbondio, non proprio un cuor di leone

Eppure il motivo per cui io leggo ancora i Promessi Sposi è un altro ancora. A me affascina la capacità di Manzoni di descrivere la gestualità dei personaggi. Sono profondamente convinta che se Manzoni avesse conosciuto l’arte del cinema ne sarebbe rimasto affascinato. In che senso? Vi faccio degli esempi.

Don Abbondio, interpretato da Alberto Sordi, nei Promessi sposi targato Rai del 1989

Don Abbondio, interpretato da Alberto Sordi, nei Promessi sposi targato Rai del 1989 (Credits: Rai)

Don Abbondio entra in scena leggendo il breviario. Talvolta lo chiude e inserisce il dito tra le pagine per tenere il segno, il tutto mentre con il piede sposta dei sassolini per strada. Quando da lontano scorge i bravi, e intuisce che “l’aspettato era lui”, mette l’indice e il medio nel collare del vestito e, facendo finta di allargarlo, gira la testa a destra e a sinistra per vedere se ci sia qualcuno pronto ad aiutarlo.

I gesti del curato si fissano nell’immaginazione del lettore proprio come la scena di un film. Il lettore vede don Abondio, ne studia i gesti, lo segue con lo sguardo. E capisce subito ciò che Manzoni vuole far capire del personaggio: il suo carattere. Don Abbondio è un uomo con la fede poco salda perché non è concentrato nella lettura ma sembra che lo faccia per abitudine o per dovere. Non osserva le bellezze del lago di Como – pur essendo un sereno tramonto di un giorno autunnale. Rimuove con la scarpa i sassolini lungo la strada che lo intralciano, così come potrebbe fare con i piccoli fastidi della vita. E il suo tentativo di fuga è così evidente che con un sorriso di bonaria comprensione lo seguiamo mentre, alla fine, decide di affrontare i bravi, pur consapevoli che cercherà ancora un modo per fuggire.

Renzo e l’istinto

Altra scena. Renzo, saputo che il suo matrimonio è stato ostacolato, pretende da don Abbondio il nome del suo antagonista: don Abbondio è seduto, piccolo piccolo sulla sua sedia, e Renzo gli sta sopra perché pretende una risposta, e istintivamente mette una mano al coltello che tiene al fianco.

Renzo non è cattivo, spiega l’autore, sono solo i tempi che istintivamente lo portano a fare quel gesto. Riuscite a immaginarvi la forza di questa scena? Il dolore, la rabbia, lo sconcerto di Renzo da una parte e la paura di don Abbondio per la propria vita – sempre quella – dall’altra. E il buon curato fa due rapidi calcoli e intuisce che è meglio tradire un pericolo lontano (don Rodrigo) che morire per uno vicino (Renzo).

Perché io rileggo I Promessi Sposi?

Ecco perché io rileggo I Promessi Sposi. Manzoni non ha bisogno di descrivere il carattere dei personaggi perché lo rende manifesto dalla loro gestualità e dalle loro azioni, in un modo che solo il cinema sa fare. E lo associo al cinema e non al teatro proprio per la minuziosità di tutti quei dettagli che sulla scena andrebbero persi.

Perché questo omaggio a Manzoni proprio oggi?

Perché domani sarà il 7 novembre, lo stesso giorno in cui, nel 1628, don Abbondio tornava bel bello da una di queste stradicciole. E la storia ha avuto inizio.

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