Memorie di un assassino di Bong Joon Ho – Cartoline di morte dalla Corea del Sud


Memorie di un assassino si apre in Corea del Sud, alla fine degli anni Ottanta.

Mentre nel Paese divampano le proteste studentesche che mirano a soppiantare il regime militare instaurato dopo l’assassinio del dittatore Park per consentire le prime elezioni democratiche, le vicende di un assassino seriale di donne, il primo della giovane storia coreana, irrompono nella cronaca nazionale.

In quel momento storico il Paese asiatico si trova alle prese con una sorprendente e voracissima rivoluzione che, da poco meno di vent’anni, va trasformando l’economia da rurale a industriale.

È proprio in questa fase di passaggio, fondamentale per comprendere del tutto le vicende di questa pellicola, che si colloca l’ambientazione del secondo film del regista premio Oscar 2020 Bong Joon Ho per Parasite.

Il contesto storico di Memorie di un assassino

La Corea del Sud è un Paese di profonde divisioni: gli agricoltori per lavorare i campi utilizzano ancora mezzi di fortuna e nei villaggi rurali la popolazione sopravvive all’interno di anguste capanne fatte di lamiera e legno. A pochi passi dai villaggi, nelle pianure immobili, si intravedono le coniche vette degli altiforni industriali.

Qui, in un piccolo assembramento urbano delle campagne, la popolazione viene destabilizzata da una serie truce di delitti ai danni di giovani donne.

La polizia – pesantemente contestata per i metodi violenti e la corruzione – indaga a vuoto servendosi di due ispettori beceri e impreparati. Uomini vuoti, senza alcuna preparazione democratica, creature di un periodo violento che brancolano davanti ai delitti come idioti, affidandosi alla superstizione più che al metodo scientifico.

Il killer non lascia tracce evidenti dei suoi delitti e opera con un metodo scrupoloso e maniacale.

I poliziotti locali sono frastornati, sedotti e al contempo confusi dalla razionalità del male, mentre l’attenzione dei giornalisti si fa sempre più spietata e il malcontento dei cittadini cresce, man mano che l’assassino rimane impunito.

La trama di Memorie di un assassino

La seconda pellicola del regista Premio Oscar 2020 Bong Joon Ho si apre con una carrellata sui campi, solcati da una strada sterrata attraversata dagli agricoltori.

Immediatamente lo spettatore si trova immerso in una colorazione gialla, con l’impressione di asfissia, di umidità e calore che si percepisce in certi grandi classici della cinematografia di guerra americani, come Il cacciatore e Platoon.

A più riprese la sensazione di soffocamento viene riproposta dal regista, con quella prassi che ci siamo abituati a riconoscere. Ricordate il seminterrato dove vive la famiglia protagonista di Parasite?

La compressione degli elementi, anche quando si trovano in uno spazio aperto, si percepisce nella monocromaticità. Per 120 minuti l’immagine panoramica della Corea del Sud è quella di una terra piatta, quasi asciutta, tendente all’uniformità dei colori. È difficile scorgere un bel paesaggio e uno scenario di profondità.

Quando la narrazione tende a uniformarsi, così come la scenografia, ecco però che il regista introduce un ribaltamento di scenario, facendo piovere, oppure facendo calare la notte.

Non è un caso, infatti, che fra le prassi dell’assassino vi sia proprio quella di individuare un orario specifico per commettere l’omicidio, quasi che la violenza giunga a rimediare a una situazione di sconfortante piattezza.

La polizia è confusa e getta le proprie attenzioni su improbabili sospetti, come lo “scemo” del villaggio, un ragazzo con problemi di ritardo mentale, figlio del malinteso comune dell’uguaglianza fra handicap psichico e devianza.

In un clima di confusione e tragicommedia si inserisce la figura di un giovane detective della polizia di Seul, un rampollo della nuova borghesia acculturata e occidentalizzata, volutamente stereotipato dal regista: vestito con abiti occidentali, fumatore di sigarette e proselito di un metodo di indagine all’avanguardia, simile a quello di Cia e Fbi.

Egli incarna metaforicamente la seduzione del mondo coreano per il progresso statunitense – che si nota moltissimo in Parasite.

In una bellissima figura retorica sulla Corea di allora, il regista ci descrive una nazione fatta di plurime identità che vanno sgretolandosi con il passare del tempo per fare spazio a un progresso che non fa prigionieri.

Molteplici i richiami della sceneggiatura ai grandi classici della cinematografia thriller occidentale (Il mostro di Dusseldorf, La morte corre sul fiume e il più recente Fargo).

Prima che il cinema italiano, causa diffusione del Coronavirus, sospendesse le proiezioni cinematografiche, le sale italiane si erano sbizzarrite nel diffondere la cinematografia del regista coreano – come era piuttosto prevedibile, dopo la vincita del premio più commerciale sul pianeta.

Se vi capita, non lasciatevi sfuggire le sue prime opere, perché è in quelle che si radica l’autenticità grezza e affascinante della sua opera.

The Host, il primo film di Ho, è disponibile su Netflix da qualche settimana!

 

 

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