Il cinema come ambiente crossmediale: la nuova centralità del ritorno a casa


Quando a tutti noi è stata data la possibilità di vedere il trailer completo di Blade Runner 2049, sequel del caposaldo di Ridley Scott, l’attenzione di una maggioranza, se non quella di tutti, era con buona probabilità rivolta al ritrovamento di quelle atmosfere cosi specifiche del genere di riferimento. Nei fatti, il trailer ne è pregno ma allo stesso tempo tanto i più attenti quanto visitatori occasionali ne avranno colto le dissonanze, gli scostamenti dall’opera “originale”. Il restyling e la rivisitazione spesso connaturata a questo tipo di operazioni.

Non è questione di fare il processo a questi primi importanti fotogrammi del film che vedremo, la cui fattura sembra ottima sotto l’aspetto scenografico, quanto rilevare l’importanza che ha avuto per noi ritrovare un’atmosfera (termine che andremo a chiarire) che connota fortemente il titolo Blade Runner, ancor prima della sua storia. È questa atmosfera che da sola, attraverso la sua aderenza o il suo scostamento, può decretare un primo giudizio sul trailer. E quando si parla di atmosfera non possiamo che non soffermarci sui suoi aspetti costitutivi, uno dei quali è sicuramente la scenografia e l’ambiente in cui si muovono i personaggi. In termini di analisi filmica, questo spazio è un composto di scenografia, architettura e paesaggio. A loro volta questi ultimi sono rappresentati dal cinema attraverso le sue capacità di elaborare uno spazio pittorico e in definitiva filmico, ovvero quello ricostruito dalla mente dello spettatore.

Di conseguenza anche i nostri ricordi di spettatori nei confronti di Blade Runner sono spesso richiamati da una specifica configurazione, quella di uno spazio architettonico denso, di una elaborazione pittorica fatta di luci al neon, intermittenti e filtrate da una pioggia senza fine o eternamente rarefatte. Si tratta insomma di ricordare un criterio di “rilevanza”, di ricordare un peso: «quanto maggiore sarà tale peso, tanto più l’esistente fungerà da “personaggio” piuttosto che da “ambiente”»[1]. E proprio per questo la rielaborazione dell’arredo urbano e extraurbano del nuovo Blade Runner, caratterizzato da un certo gusto astratto, apparentemente estremizzando certi ambienti lineari, monocromi che erano parte di una minoranza di scene dell’originale, produce un primo scarto, un muoversi oltre la nostra memoria di ricchezza di particolari e ingombrante décor noir-fantascientifico di stampo ormai classico.

Il mantenimento delle caratteristiche di un ambiente narrativamente forte assume molta importanza nella produzione di un nuovo racconto che si vuole parte di un franchise crossmediale. Importanza riconosciuta fino all’esibizione di sé stessa nel recente adattamento di Ghost in the Shell, declinazione “live action” del cult d’animazione. Questa sorta di remake americano non tradisce le aspettative sull’importanza che l’ambiente cyberpunk, con le sue architetture, le sue luci, ombre e spazi, ha nelle storie di questo franchise. L’attenzione ai dettagli è enorme, i set reali sono perfettamente fusi con quelli digitali creando un mondo retro futuristico veramente credibile e dettagliato. L’atmosfera di cui si parlava sopra muove la narrazione e i problemi del film stanno sicuramente altrove di fronte a tanta capacità scenografica. Gli scarti sono giustificati solo dalle necessità di ricreare quella poetica che faceva dei film di animazione la quintessenza del genere. Avremo quindi, al posto di un proliferare di cartelli, segnaletiche e luci al neon, una fitta rete di ologrammi colorati, icone fluttuanti nell’aria densa degli spazi urbani. Le vedute dall’alto ma anche e soprattutto quelle dall’interno o dal basso, nelle strade della città, rimandano in modo molto preciso una rilettura dell’originale, tesa a restituirci, spesso con successo, una sensazione di ritrovamento (poco importa che la storia della protagonista segua esattamente necessità opposte, quelle dello spaesamento). Ci troviamo di fronte a una modalità del ritorno a casa, del ritrovo del familiare. Anche se di tipo immaginario «la memoria interagisce con l’esperienza aptica del luogo; il viaggio architettonico del cinema organizza e avvia proprio questa esperienza di rivisitazione geografica.

I luoghi vivono nella memoria e rivivono nel cinema»[2]. In più, la fusione fra cartone animato e live action fa esplodere le gerarchie e sempre più assistiamo all’importanza delle situazioni ancora prima del medium scelto. Quest’ultimo configura certo tecnologie e linguaggio utilizzati, ma ciò che ci permette di godere di storie diverse ma situate sempre nel medesimo universo narrativo è in gran parte lo spazio. Esplorando lo stesso spazio da più accessi diversi, finanche con tecnologie diverse, lo spettatore può di volta in volta ritrovarsi, ripartire da una mappatura nota e ampliarla con nuove informazioni. È il caso di Rogue One: A Star Wars story. Qui l’attenzione ai dettagli, alle architetture, genera una ricostruzione che, fortemente al servizio della storia questa volta, fa ugualmente di se stessa una grande manifestazione del ritorno a casa, ai luoghi noti del passato di “Una nuova speranza” . Questo restituisce un forte senso affettivo e conserva una funzione di orientamento in una storia che, trattandosi di spin off, introduce a fianco di quelli noti, nuovi personaggi e quindi nuovi luoghi, ampliando considerevolmente la geografia di Star Wars. Ma il film di Gareth Edwards non lo fa con le modalità da remake del precedente episodio 7, né con quelle barocche della trilogia prequel. Mostra una grande reverenza verso i luoghi classici trattandoli tuttavia come parte integrante della nuova geografia che va a comporre. Non c’è esibizione esplicita come in Ghost in the Shell, seppure lo spettatore fan non potrà che notare la perfezione dei dettagli scenografici sentendosi nuovamente parte del processo collettivo che da 40 anni costantemente compone e amplia questa galassia.

Ed è sempre l’attenzione per i dettagli che può fare la differenza nel reticolo di narrazioni che compone un altro universo altrettanto longevo, quello di Alien. Più una storia ambientata in quest’ultimo vuole avvicinarsi al canone dei primi due film, più risulta importante caratterizzare fortemente gli spazi dell’azione attraverso la ricreazione di dettagli. E almeno due delle recenti incarnazioni di questo franchise mettono attenzione a quello che in una narrazione cinematografica conclusa avremmo chiamato un mondo “ben arredato”, caratterizzato da un’apertura a «varie possibilità combinatorie, ma finito e definito in modo stabile»[3]. Come è possibile allora parlare del costante ampliamento dell’universo narrativo di Alien, recentemente tornato anche al cinema con Alien: Covenant, in termini diversi dalla cosiddetta “fiction de territorializzata” caratteristica delle narrazioni attuali, sempre quelle che prevedono «universi iper-diegetici: universi vasti, dettagliati, di cui solo alcune porzioni vengono di volta in volta perlustrate, ma di cui altre porzioni sono sempre suscettibili di ampliamento e ricostruzione»[4]. Se è indubbio che l’attenzione alla ricostruzione dettagliata di spazi che fanno parte dell’esperienza claustrofobica del film di Scott viene proposta con grande convinzione in incarnazioni ludiche (Alien:isolation) e cartacee (Aliens: defiance) interconnesse fra loro da dettagli quali oggetti e personaggi, allora è vero che la tenuta di questi testi, per quanto facenti parte di una narrazione che prevede ambienti “chiusi” e non modificabili, poco espandibili, si basa proprio fortemente sulla loro rilevanza. Non possono esserci Xenomorfi senza corridoi e strutture fatiscenti, senza una tecnologia del futuro fortemente ancorata a un passato industriale[5]. Per questo ci si trova di fronte all’enorme paradosso in cui quando lo stesso Scott vuole immaginare la genesi della “sua” creatura anche cercando, un po’ goffamente come in Covenant, di reintrodurre alcuni set simili a quelli già noti, lo fa in modo spesso intrigante ma molto più confuso e meno riuscito dei suddetti titoli minori, che come tali non sono più cosi facilmente etichettabili e si configurano come prodotti concepiti per soddisfare appieno l’esigenza di aderenza a uno o più originali.

Questo delinea uno scenario in cui le scelte o i bisogni autoriali di portare avanti con nuove storie universi molto noti e iconici può risultare spesso per certi spettatori un’esperienza meno appagante dell’eterno ritorno operato con sempre più capacità da altri medium e altri nomi. Succede quindi che le aspettative vengano capovolte. Proprio ora ne abbiamo un illuminante esempio con il ritorno di Twin Peaks. Non servono introduzioni, basta aver visto i primi episodi per poter constatare quanto David Lynch e Mark Frost giochino con le aspettative del pubblico di rivedere luoghi noti, riproducendo quell’insieme di spazi e situazioni che genera automaticamente un sentimento nostalgico. Con queste aspettative Twin Peaks gioca abbondantemente, disattendendole puntualmente, introducendo nuovi spazi d’azione in abbondanza, senza per ora valorizzare o indugiare più di tanto su quelli noti, quelli realmente attesi da chiunque abbia seguito le precedenti stagioni, oltre 25 anni fa. Siamo abbastanza certi che il ritorno alla cittadina di Twin Peaks, alle sue foreste e alle sue stanze nascoste ci sarà (e già in realtà c’è stato in abbondanza, ma non nelle modalità che in molti si aspettavano) e forse più spazio le verrà concesso, ma la disattenzione apparente è in realtà un importante tassello di un ritorno questa volta non nostalgico, ma difficile e sofferto, che non vuole e forse non vorrà mai semplicemente sfruttare il già noto, gli ambienti conosciuti, e muovere verso altro, tenendo conto in modo molto lucido del passato ma lavorando su un ampliamento del complesso mondo presente. Ed ecco l’azione spostarsi da Los Angeles a Buenos Aires, da New York a Philadelphia, in modo da non farci mai trovare a nostro agio, contribuendo fortemente alla decostruzione del fenomeno dei revival, intesi come, in questa ottica, degli eterni ritorni ai luoghi conosciuti. Osiamo assumere ora la terza stagione di Twin Peaks come esempio simbolo di quanto alcune storie siano in grado di rileggersi come nuove fiction deterritorializzate di matrice contemporanea e che ora, in vista della loro complessità, come tali necessitano di essere.

Progetti di “cinematic universe” in corso o futuri, come quello di Avatar, possono ampliare o complicare notevolmente il discorso e lo faranno anche in termini di adozioni tecnologiche come la realtà aumentata e virtuale. Resta certa la possibilità di riassumere i diversi atteggiamenti attraverso una assiologia che prevede ai due estremi un grado di totale isomorfismo, dove un ambiente è immutabile nelle varie occorrenze con cui si presenta, e uno di totale differenziazione, dove l’ampliamento è tale da non presentare più alcun tratto noto. I casi di volta in volta saranno posizionati a distanze variabili fra questi estremi. Ma più importante di uno schematismo, quella che sembra affermata è l’idea secondo la quale situare una storia è oggi spesso più importante del modo o della tecnica con cui narrarla.

[1] Francesco Casetti, Federico di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990, p. 167.

[2] Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano, p. 199.

[3] Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, Le nuove forme della serialità televisiva, ArchetipoLibri, Bologna, p. 61.

[4] Ivi

[5] A dirla tutta, Alien ha due anime, la seconda è quella di Cameron, ma nonostante il cambio di genere a war movie alcune caratteristiche permangono.

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