Giganti e spie: la nostalgia per le ombre di Spielberg e Zemeckis


Giganti e spie: la nostalgia per le ombre di Spielberg e Zemeckis .

Una parte della critica sostiene che sia sempre più necessario ormai rendere conto al proprio lettore di come, assieme a giudizi, rassicurazioni o stroncature, il film in oggetto si sia visto, ovvero delle sue condizioni di visione. Non diversamente da come si può osservare ogni altro tipo di evento, è ormai per molti chiaro come la diversificazione dei canali di fruizione si possa fondere, se non confondere, a una critica votata all’oggettività. Tuttavia, anche senza volersi scomodare una “critica della critica”, è chiaro come nell’atto dello scrivere l’aver visto due film in sala a poca distanza l’uno dall’altro generi a volte un confronto anche involontario. Quando poi i nomi coinvolti hanno un peso specifico e una storia comune, tale accostamento si rende quasi automatico. Chi scrive pensa quindi che esista una condizione di vicinanza tanto personale, di visione, quanto una sottile analogia fra gli ultimi lavori portati nelle sale dal duo composto  Spielberg e Zemeckis.

Chiaro come fra i due registi ci sia stato in passato un dialogo a partire dalla sceneggiatura di “1941 – allarme a Hollywood”, alla chiara imitazione con “All’inseguimento della pietra verde” sull’onda del rilancio dell’avventura grazie al più famoso archeologo, passando alla produzione di “Ritorno al Futuro” e “Chi ha incastrato Roger Rabbit” da parte dello stesso Spielberg. Ora però le affinità si fanno più celate, quasi ombrose. I prodotti di animazione e le ultime prove dei due ex-giovani di Hollywood sono sicuramente più autonome e, osiamo dire, personali. Dopotutto, quali sono i punti in comune fra la storia di una bambina che si ritrova in un paese dei giganti e una storia d’amore fra una spia inglese e una francese durante la seconda guerra mondiale?

Spielberg e la manipolazione di sogni

Seguendo una analisi di carattere autoriale è facile collocare “Il GGG – il grande gigante gentile” in quell’alternanza con cui Spielberg ci sta abituando negli ultimi anni, che vede scandire film di grande spessore e impegno culturalmente marcato (Lincoln, Il ponte delle spie) a fughe favolistiche, quasi proto-disneyane (“War Horse“, “Le avventure di Tin Tin“).  Non a caso con la trasposizione del racconto di Roald Dahl, Disney si riserva il ruolo di distributore.

Si tratta della seconda incursione nella tecnica dell’animazione in motion caputre dopo “le avventure di Tin Tin – il segreto dell’unicorno”, ma questa volta al gigante digitale vengono affiancati attori e set reali. Saremmo quindi più dalle parti della tecnica mista, ma non siamo sicuri che questa classificazione possegga ancora un suo valore classificatorio. Ciò che ci preme è notare come nonostante l’inserimento della bambina sempre a fianco del gigante digitale a Spielberg non sembra importare molto del suo passato e del suo trattamento come protagonista, ed è questa una prima smagliatura.

Sophie è trattata soprattutto in funzione dell’interazione con il Ggg, figura eroica tipicamente spielberghiana. Inteso, non ci può essere l’uno senza l’altra, ma è evidente come, anche in funzione a un racconto lineare, l’interesse va verso l’affabulazione attraverso la costruzione di un mondo altro, tipico del sogno e che è quello vissuto dal gigante.

Non risulta un caso che il suo lavoro di manipolazione di sogni catturati sia metaforicamente il lavoro del demiurgo regista, osservato con ammirazione dal suo pubblico infantile. Ci sono tuttavia piccoli sintomi di difformità rispetto a una simile e rassicurante lettura, in particolare l’affermazione del gigante: «Ci saranno grandi avventure, e risate. Tempi sarà duri, tempi sarà morbidi … ma non in paese dei giganti»[1]. Momenti come questo sembrano trattare la favola di Dahl in ottica adulta, scelta di merito che però viene smentita dal ritmo della narrazione, decisamente più rivolto a un pubblico infantile. E qui una nuova difficoltà, dal momento  che dubitiamo che questo ipotetico pubblico infantile possa realmente essere coinvolto da un cosi lento svolgersi degli eventi. È come se Spielberg non sapesse a quale pubblico il suo film è rivolto (cosa peraltro dimostrata dagli incassi). Rimane sempre la pregevole fattura e la tipica capacità di articolare la messa in scena giocando in questo caso con le possibilità scenografiche e della motion capture.

Ma qui l’enorme perizia e bellezza del gigante gentile sembrano quasi sancire un’impossibile figura, talmente perfetta da essere impalpabile nel suo gigantismo e nella sua bonarietà e tuttavia “attore” presente nelle sue movenze. Tipico problema cognitivo generato dalla tecnologia e che qui vorremmo etichettare usando la definizione di “ombra sintetica”. «le immagini ombre non esisterebbero senza la realtà. Cosi pensiamo nell’incontrarle. E vagheggiamo corpi dietro di loro. Ma esse hanno con il mondo solido un rapporto strano. A volte sono corpi esse stesse, a volte finiscono per plasmare la loro matrice a propria somiglianza»[2].

Questa lettura del gigante come ombra, avvalorata per di più da concrete soluzioni di messa in scena, ci palesa un sentimento, quell’incapacità ad essere del tutto coinvolti, quasi frastornati da un mondo infantile che non ci appartiene ma immaginato con cosi abile maestria. Non siamo di fronte al rapimento meraviglioso di un “Hook”. Ed è proprio per questo che l’idea di “ombra sintetica” si fa avanti, facendoci concordare con chi afferma che «come Sophie, Spielberg si sente costretto a condurci in un “paese” che è più nostalgia che meraviglia, giusto per presentarci la “fabbrica” di un tempo: la caverna di Méliès, il “ventre” del cinema fantastico dove sono custoditi i nuclei originari, le “scintille” da miscelare e proiettare sulle pareti del cinema»[3]

Zemeckis e la disillusione dissimulata.

E proprio la figura dell’ombra fa capolino nel titolo italiano di “Allied – un’ombra nascosta. Il film di Zemeckis colpisce lo sguardo (e la mente) fin dalla prima inquadratura, in cui un Brad Pitt paracadutista ci viene presentato come una figura che emerge dal nulla nell’atto di atterrare verso un altro nulla che è il deserto. Fin da subito quindi si mette in atto nel cinefilo più esperto o nello spettatore più smaliziato (che resta poi la condizione di visione più comune dello spettatore contemporaneo) la caccia alle marche discorsive, ovvero quelle tracce dell’enunciazione che segnalano la presenza del  narratore. Ovviamente non c’è mai, allo stesso modo che con Spielberg, una tangibile destrutturazione della continuità, ma fra documenti falsi, dialoghi programmati, prove di lealtà, tutto il film sembra tendere sull’apparenza e la sua messa in prova, come da più parti giustamente sottolineato. Tutto sembra essere rivolto alla ricostruzione con i mezzi attuali di un cinema votato a un classicismo da età d’oro. Il glamour, lo stile pacato e solido della regia sembrano marcare tale carattere anche in contrapposizione con il precedente “The Walk”, almeno in superficie. Puro manierismo. Il punto dove si incontra maggiormente analogia con l’operazione Spielberghiana sta infatti nelle scelte formali. Non tanto perché tecnicamente affini (Zemeckis sembra aver abbandonato finalmente i suoi esperimenti in Motion Capture dopo A Christmas Carol), quanto perché profondamente barocche e squisitamente pittoriche. Come con il suo precedente monumento al world trade center tutto si fa metafora, discorso sull’immagine e il suo valore progettuale nei confronti del reale. Altre affinità emergono, fra cui le scelte di gestione ambientale, ovvero il trattamento di questo alla stregua della percezione di un non-luogo: la Londra di Spielberg è senza tempo, la Casablanca di Zemeckis è una ricostruzione cinematografica e virtuale, sintesi di diversi ambiente e le riprese si sono svolte in realtà alle Canarie.  E se il gigante gentile digitale si fa tutt’uno con le favolose e favolesche scenografie costruite attorno a lui, questo spazio risulta a tratti staccato o sconnesso dalla protagonista Sophie, tipico segno alieno all’interno di un green screen tanto accurato quanto onnipresente. Non tratteremo mai alla stregua del cattivo gusto alcune scelte squisitamente votate all’artificiosità come quelle dei fondali desertici di Casablanca, o di quelli ultrabellici notturni di Londra. La loro essenza barocca o iperreale che dirsi voglia è un atto palese di dichiarazione. Il lirismo degli atti d’amore fra i divi Brad Pitt e Marion Cotillard non poteva che essere posto in primo piano da uno sfondo che proprio in questi momenti viene relegato a ruolo di pura cornice sensibile. Spielberg usa questa cornice per giocare malinconicamente con i colori (e i sogni) digitali laddove Zemeckis esalta la funzione drammatica della cornice stessa.

Proprio ora nel momento in cui un genere come la fantascienza sta vivendo una forte rinascita sancita dalla volontà di comprendere il presente, quello di Spielberg e Zemeckis è un cinema fatto di rifugi nostalgici e disillusione dissimulata. Niente di nuovo, si tratta in fondo di una dinamica più che presenti nelle produzioni attuali. Il gioco di rimandi che costruisce l’esaltazione di un cinema che parla prima di tutto a sé stesso sembra essere necessario a Hollywood stessa. colpisce tuttavia che queste piccole fughe siano rese con la maestria di due registi che hanno sempre fatto dell’operazione tecnologica un loro marchio distintivo. Questa scelta non è a nostro avviso da etichettare definitivamente come tale e archiviare nella mensola dedicata all’autore.

Se non fosse demodé parlare di postmoderno saremmo ora qui a sottolineare come in realtà il GGG sia un racconto sull’incanto disilluso e quanto le spie di Allied ci raccontino della natura dell’immagine simulacro. Non necessariamente queste sono letture sbagliate o svogliate. In buona sostanza questo è quello che una lettura di secondo grado può cogliere e ciò che da molta critica è stato colto. Il prezioso gioco di smascheramento dell’illusione è con valore diversi presente in modo più o meno velato in entrambi, o comunque quasi necessario per il cinefilo e ammiratore. A noi interessa notare come contemporaneamente questi due veterani del cinema esprimano sentimenti tanto similarmente nostalgici quanto fondamentalmente innocui nell’economia complessiva del cinema Hollywoodiano, e proprio quando altri insediamenti nostalgici e tutt’altro che innocui si appropriano dei voti degli elettori americani (e non). Forse che quando le più blasonate distopie annaspano è sufficiente un qualsiasi racconto per bambini o la più trita spy story amorosa a offrire coerenti letture dei nostri tempi?

[1] Sintesi della battuta n.d.r. riascoltabile in parte nel trailer: https://www.youtube.com/watch?v=Dpy55QyYjmQ

[2] Colombo Fausto, Ombre Sintetiche. Saggio di teoria dell’immagine elettronica, Napoli, Liguori Editore, 1995, p.60.

[3] http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5996

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