Una chiacchierata con Marilena Delli Umuhoza – Intervista alla scrittrice di Negretta


Marilena Delli Umohoza vista da Carola Astuni

Marilena Delli Umohoza (Credits: Carola Astuni)

Marilena Delli Umuhoza, scrittrice, fotografa, cantante, produttrice musicale, è nata da padre italiano, ex missionario, e mamma rwandese. Una vita da artista, la sua, in cui però ha dovuto fin da giovanissima confrontarsi con il colore della sua pelle.
Una laurea in Lingue per la Comunicazione Internazionale conseguita in Italia, continua i suoi studi da documentarista a Los Angeles dove incontra Ian Brennan, pluripremiato produttore musicale che diventerà suo partner lavorativo e nella vita.
A distanza di quattro anni dal suo esordio letterario con Razzismo all’italiana – cronache di una spia mezzosangue, Marilena Delli Umuhoza ci regala un nuovo romanzo per parlare della sua esperienza di afroitaliana.

L’ho intervistata poco tempo prima dell’uscita di Negretta – Baci razzisti, che ho recensito qui su Discorsivo. Abbiamo avuto modo di fare una bella chiacchierata a proposito del mondo in cui è cresciuta. E lei ce l’ha raccontato con parole semplici e dirette, come state per leggere.

Insieme abbiamo parlato anche del Rwanda, il bellissimo Paese africano divenuto tristemente noto per il genocidio del 1994: una terra i cui abitanti avevano sempre convissuto pacificamente, fino all’arrivo del colonialismo belga. Colonialismo che creò una suddivisione etnica laddove, etnie, non esistevano.

Durante l’intervista sono emersi alcuni riferimenti a questi episodi. Mi è sembrata una buona idea riassumere il (complessissimo) quadro storico, prima di cominciare.

Il contesto storico del Rwanda

I belgi, dicevamo, crearono dal nulla una suddivisione etnica in un Paese in cui questa non esisteva. Hutu e tutsi erano infatti delle semplici categorie sociali: chi possedeva più di dieci mucche, era tutsi. Chi ne aveva di meno, era hutu.

Ma i belgi non tennero conto di nulla di tutto ciò: iniziarono una politica discriminatoria fondata su canoni puramente fisici. Se sei alto, hai il naso sottile, sei tutsi e intelligente; se sei basso, hai le labbra carnose, sei hutu e stupido.

Misurazione del naso e degli occhi da parte dei coloni belgi

Misurazioni effettuate dai coloni belgi per stabilire l’etnia di appartenenza nel Rwanda degli anni Trenta (Credits: Rwanda, 22 years on, Medium.com)

Una suddivisione che costò cara al popolo rwandese, che finì col distruggere le proprie tradizioni e tessuto sociale. Dal 1959, infatti, gli hutu (che erano stati marginalizzati per anni), cacciarono migliaia di tutsi, uccidendone altrettanti. Fu questo, di fatto, l’inizio di un vero e proprio genocidio che arrivò al suo apice nel 1994, quando – in soli tre mesi – vennero uccisi circa un milione di donne, uomini e bambini.

Quattro chiacchiere con Marilena Delli Umuhoza

Con Marilena Delli Umuhoza non abbiamo parlato solo di Rwanda, naturalmente. Anzi: la nostra intervista ha riguardato soprattutto l’Italia, il Paese che ha dato i natali a questa talentuosa scrittrice. Un Paese che l’ha vista nascere, l’ha marginalizzata, l’ha insultata. Le ha fatto desiderare capelli lisci e pelle chiara. Un Paese che, però, ha imparato ad amare e, nel quale, ha scelto di vivere.

Marilena, cominciamo la nostra intervista parlando dei tuoi libri: volevo farti i davvero i complimenti, me li sono letteralmente divorati!

Sono contenta che ti siano piaciuti! In Negretta ci sono fatti che sono romanzati, come la violenza del papà che si sente in maniera piuttosto marcata. Originariamente ogni episodio doveva essere un capitolo a parte, ma l’editore mi ha convinta a optare per paragrafi continui. Il mio intento era quello di arrivare in maniera diretta al lettore: una sorta di romanzo a istantanee.

Per me è stata la prima volta in cui ho letto un libro edito in paragrafi, ma l’ho trovato adatto allo scopo. Quasi come un flusso di pensieri.

Sai, c’è tanto di me, della mia vita, della mia storia: ma ci sono cose che è meglio scrivere sotto forma di romanzo. Così è stato. Però sono davvero felice che ti sia piaciuto, perché volevo che questo libro arrivasse a persone che, come te, hanno abbracciato il multiculturalismo e ne hanno fatto uno stile di vita. Persone i cui figli – con un bagaglio culturale ricchissimo – potranno riconoscersi in ciò che ho scritto. Per capire che non sono soli, ma che ci sono anche altre persone che hanno il loro stesso vissuto.

Come hai trovato il tuo modo di trattare l’argomento razzismo?

Penso che ci siano diversi modi per raccontarlo. Molto spesso c’è una rabbia di base in chi scrive e racconta le proprie esperienze. Io però ho scelto una chiave più autoironica. Sempre riflettendo, a volte con leggerezza, ma volendo comunque far capire al lettore che questi fatti accadono veramente e che rappresentano l’attualità del nostro Paese. Non solo il razzismo istituzionale, ma anche quello di tutti i giorni. Ognuno ne parla in maniera diversa, in base all’esperienza personale, ma è importante non prendersi troppo seriamente.

Non deve essere stato facile mettere per iscritto tutto quello che hai vissuto.

Ho scelto di farlo per affrontare il tema della complessità della costruzione identitaria. Ci sono sicuramente tante persone come me che hanno la fortuna di condividere più culture all’interno della stessa famiglia, con tutta la complessità che ne consegue. Dovevo assolutamente parlarne.

Per me è stato illuminante leggere i tuoi libri. Da madre di una bambina mista, sono chiaramente interessata al tema, ma non si trova assolutamente nulla!

Brava, proprio così. Si fa davvero fatica ad accettarsi in un Paese in cui non riesci a rispecchiarti. Cominci a chiederti “Ma cosa c’è che non va in me?”. A quel punto tenti di conformarti: ti stiri i capelli che sembrano paglia, ti sbianchi la pelle per sembrare come gli altri. Sui parrucchieri, poi, c’è da aprire un capitolo a parte. Il parrucchiere, da cui andavo pagando anche un sovrapprezzo perché “Qui non trattiamo questi capelli”, prendeva un pettinino e cominciava a tirarmeli senza nemmeno lavarli.

Ed è andata bene?

Alla fine del trattamento sembravo una nuvola di zucchero filato. Mi ci sono voluti anni, e un’amica parrucchiera, per cominciare a stirarli senza prodotti chimici. Me li lisciava col phon. Le stirature chimiche partono dalla famiglia stessa: era proprio mia madre a farmele. Ma non era colpa sua: c’è sempre stata questa mentalità, che il capello riccio sia sporco e disordinato. Il capello afro non viene accettato sul posto di lavoro, si viene invitate a tenerlo sistemato pena il licenziamento: c’era un articolo su questo argomento proprio su Repubblica.

Inevitabile che ognuno abbia esperienze differenti. Così come inevitabilmente siano diverse le storie di costruzione identitaria di figli adottivi transrazziali, o delle seconde generazioni. Chi vive in una famiglia multiculturale, chiaramente, ha la fortuna di avere due modelli in simultanea. E comunque non è semplice bilanciare la ricerca delle radici, il luogo in cui si vive e tradizioni diverse fra di loro.

La cosa che abbiamo sicuramente tutti in comune è la mancanza totale – o quasi – di modelli di riferimento positivi. Nel cinema, nell’arte, nella letteratura. Oggi si cominciano a intravedere i primi tentativi, ma che arrivano comunque dagli Stati Uniti. In Italia non si parla quasi mai di seconde generazioni, di ragazzi come noi che sono cresciuti con questa assenza di modelli. Per quanto mi riguarda, questa mancanza mi faceva spesso sentire inadeguata. Dalla mia avevo già mia madre che mi ripeteva che dovevo fare più degli altri in quanto nera. Sosteneva che fossimo rispettati solo grazie al fatto che mio padre era bianco. Una mamma che ha sempre cercato di sbiancarmi la pelle, di lisciarmi i capelli. Non dovevo spiccare nella massa, ma dovevo esserne parte integrante.

E come l’hai vissuta?

Non avendo altri punti di riferimento, non può non influenzarti questa cosa. Ti rende insicura, ansiosa. Sono contenta che in Italia, oggi, ci sia molto più melting pot. Ma ancora non basta. Non è possibile che non venga – ad esempio – riconosciuta la cittadinanza a persone che sono nate e cresciute qui e che fanno integralmente parte del nostro tessuto sociale.

Già in Razzismo all’italiana, quattro anni fa, avevi trattato l’argomento dello Ius soli. Da allora, ancora nulla si è mosso. Cosa deve succedere, secondo te, perché la politica se ne occupi veramente?

L’Italia dovrebbe allinearsi a tanti altri Paesi dell’Unione Europea, così come hanno fatto il Canada, l’Argentina, il Brasile. L’Italia deve guardarsi intorno e comprendere che è totalmente assurdo restare ancorati a una legge del ’93, quando stava cominciando il boom dei flussi migratori. Sicuramente qualcosa deve esser fatto e modificato. Chi fa barricate al tema dello Ius soli sta confondendo il tema delle migrazioni con quello della cittadinanza: la cittadinanza viene comunque data a chi in Italia fa un percorso, a chi è integrato.

Volevo invece chiederti cosa ne pensi del termine mulatto: in tanti sostengono che storicamente sia offensivo (deriverebbe dalla parola “mulo”). In inglese esistono svariati termini per indicare i figli nati da una coppia mista, ma in Italia si continua a usare mulatto, o meticcio (che a me ricorda un cane…). Ritieni sia importante cambiare terminologia?

Un ritratto della scrittrice Marilena Delli Umuhoza

La scrittrice Marilena Delli Umuhoza (Credits: Marilena Delli Umuhoza)

Il primo giorno di liceo, mi sono presentata dicendo “Ciao, sono Marilena, sono mulatta“. Chissà perchè l’ho detto, mi sono sentita in dovere di dirlo come se facesse parte della mia carta d’identità. Questo è il peso di sentirsi diversi. Sinceramente è un termine che non amo, così come meticcio, così come non mi piace l’espressione di colore. Prima di tutto io sono una donna italiana, nera. La terminologia è importante, ma noi siamo persone con un nome e un cognome: secondo me il colore dovrebbe passare in secondo piano, anche quando si riporta una notizia. L’altro giorno, sono rimasta piacevolmente stupita, ho letto un’articolo di cronaca dove si citavano i nomi – di origine straniera – dei protagonisti della vicenda, ma senza dare rilevanza a quell’origine. Ho pensato “Finalmente!”. Quando cominci a parlare di colore, sembra davvero di parlare di cani.

Sono totalmente d’accordo con te.

Le persone vanno individuate per ciò che sono, per il loro valore. Perchè definire qualcuno per la sfumatura della pelle? In questo modo finiamo per catalogarci all’interno di un gruppo, ma senza interessarci davvero del valore di ogni singolo individuo. Nel Paese di mia mamma, i coloni belgi hanno introdotto la carta d’identità etnica, in cui era necessario specificare se si era hutu o tutsi. Avevano anche stabilito i canoni per cui una persona apparteneva a una tribù piuttosto che all’altra. Questo succedeva in un Paese dove per secoli tutti avevano convissuto pacificamente senza problemi.

Ci tenevo molto a farti questa domanda. Che immagine avevi del Rwanda quando eri bambina?

Un’immagine sbiadita, come le fotografie del nostro album di famiglia. L’unica foto che abbiamo della famiglia di mia mamma, cielo azzurrissimo, poco paesaggio. In casa avevamo tantissimi oggetti del Rwanda, le frecce, i bastoni del matrimonio. Questo era il mio Rwanda. Mamma non mi parlava mai del suo Paese, perché era traumatizzata dai tre genocidi che hanno investito la sua terra. In quello del ’59 è mancata gran parte della sua famiglia, nel secondo aveva perso tutti tranne sua madre, nel ’94 sono morti tutti i suoi amici. Per caso, dieci anni dopo, abbiamo scoperto che un’amica era sopravvissuta. Mia mamma si è decisa a tornare dopo ben trent’anni: ho girato proprio un documentario sul suo ritorno. Davanti alla telecamera, allora, si è messa a raccontare la sua storia e il suo passato. Ti dirò, non è che avessi chissà quanta fretta di conoscere il Paese di mia madre: sicuramente lo vedevo come un progetto futuro, ma non era una mia priorità.

Visto che – come spesso hai raccontato – sei stata discriminata per la tua pelle, ti sei mai immaginata più a casa tua in Rwanda? Anche idealizzandolo, intendiamoci.

La scrittrice Marilena Delli Umuhoza da bambina

Marilena Delli Umuhoza ritratta in un momento di gioco da bambina (Credits: Marilena Delli Umuhoza)

Io mi sono sempre sentita italiana al 100%. Sono nata qui, cresciuta qui, sono stata insultata qui. Sono italiana e me lo sono meritato, direi! La cosa interessante, è che quando vado in Rwanda, io sono considerata bianca. Chiamata negretta in Italia, scoprivo di essere bianca in Rwanda: il risultato è che non mi sentivo adeguata in nessun posto. Non capivo nemmeno la lingua. Mia madre insisteva perché mi esprimessi in kinyarwanda, quando lei non me lo aveva mai insegnato! Forse sperava che io, improvvisamente, cominciassi a capire e – di conseguenza – a parlare. Andando in Rwanda ho capito che non era la mia terra, ma che faceva parte delle mie radici, della mia identità. In quel periodo, fra l’altro, stavo attraversando un periodo in cui ero molto disorientata: in Italia mi sentivo costantemente respinta e rifiutata, ma così anche in Rwanda. Ho vissuto un paio di anni a Los Angeles, poi a Parigi: lì ho capito che volevo tornare in Italia, a casa mia, il Paese più bello del mondo. E lo pensa anche mio marito, che ha scelto di venire a vivere qui con me!

Hai fatto il giro del mondo per tornare al punto di partenza, insomma. Parlando di viaggi, devo dirti di esser rimasta molto commossa da ciò che hai raccontato sul Malawi, durante il tuo primo viaggio in Africa. Ormai adulta, hai incontrato – per la prima volta – i tuoi fratellastri, figli di tuo padre e di un’altra donna, nati prima che i tuoi genitori si conoscessero.

Avevamo tutti e tre la stessa pelle e, soprattutto, tratti somatici in comune. Mio fratello, in particolare, era la fotocopia di mio padre da ragazzo. Vedere mio padre da giovane, quando di fatto io l’ho solo conosciuto dopo i 40 anni, è stato un po’ uno shock. Abbiamo cenato insieme, davanti al fuoco, al villaggio. Immagina incontrare i tuoi fratellastri, di cui scopri l’esistenza per caso da adolescente… Devo dire che mi sono sentita privilegiata rispetto a loro, questo senza dubbio, ma per una questione di occasioni che loro non hanno avuto. E per il fatto di aver avuto entrambi i genitori a crescermi. Non che a me sia stato mai regalato nulla, anzi. In Africa spesso si pensa che in Europa, in Italia, tutto sia semplice e che sia tutto facile. Per noi non è stato così: facevamo fatica ad arrivare alla fine del mese, i vestiti ci arrivavano dalla Caritas o dai vicini. Pensa che io ho cominciato a fare collanine e braccialetti a cinque anni, li vendevo porta a porta nel mio palazzo. Poi ho iniziato a dare ripetizioni di inglese alle elementari, al liceo ho lavorato in un bar, poi all’università… Insomma, ogni viaggio era il frutto del mio lavoro.

Penso sia stato difficile per tua mamma veder soffrire te e tua sorella. Sicuramente il suo prendersi cura dei vostri capelli, lisciandoveli, era il suo modo per aiutarvi, per proteggervi. Una forma di razzismo che in qualche modo lei stessa aveva assorbito, senza rendersene conto.

Esatto. Quando mia mamma è stata qui da noi per darmi una mano con la bimba, ricordo un giorno in cui si è messa a leggere Razzismo all’italiana. La sentivo dall’altra parte della casa che commentava ad alta voce: a volte rideva di gusto, altre volte faceva smorfie. Lei stessa mi ha confessato che non immaginava che avessi vissuto il razzismo in questo modo. In qualche modo, è stato un modo per capirmi e conoscermi meglio. Per lei era un argomento del tutto nuovo: lei stessa arrivava da un Paese in cui era stata discriminata per la sua tribù di appartenenza. Mia madre avrebbe voluto diventare un medico, ma non ha potuto in quanto tutsi: l’accesso a molti impieghi era limitato, se non vietato del tutto, ai tutsi.

E per te, in particolare, quanto è stato importante accettare il capello al naturale nella tua costruzione identitaria?

Da piccola portavo i capelli al naturale, ma alle elementari mia mamma mi faceva le treccine “per domarli”, come diceva lei. Arrivata

all’adolescenza, non riuscendo a gestirmeli da sola, sono stata introdotta al mondo dei liscianti chimici. Ho sempre pensato che il mio capello fosse brutto e sporco, perché così mi veniva detto in famiglia e fuori. Mio marito, conosciuto quando avevo più di 20 anni, ha iniziato a dirmi che sarei stata molto bene con i capelli al naturale, ma io mica gli credevo all’inizio…

E poi hai cambiato idea?

La copertina di Tassili, album firmato Tinariwen, vincitore del Best World Music ai Grammy del 2012

La copertina di Tassili, vincitore del Grammy per il Best World Music Album 2012 (Credits: Anti)

Prima sono successi due episodi con il phon in cui ho rischiato di restare folgorata, ho avuto più di un incidente perché per me era diventata un’ossessione! Non uscivo di casa se non avevo i capelli perfettamente lisci. Ma l’episodio culmine è arrivato quando abbiamo registrato l’album che ha vinto il Best World Music ai Grammy nel 2012, Tassili dei Tinariwen. In quell’occasione sono rimasta bloccata nel Sahara per una settimana, e pure lì il mio problema era avere il capello liscio. L’aereo, purtroppo, aveva avuto un ritardo e abbiamo dovuto prolungare… Arrivata a quel punto, con la testa piena di sabbia, ho dovuto cedere e lasciarmi i ricci (ricevendo un sacco di complimenti, fra l’altro!).

Li avessi io i tuoi ricci… una vita a fare la permanente e sono più lisci di prima!

Ma pensa che io ho iniziato ad accettare il mio capello anche grazie a mio marito! Pian piano, guardando video di donne afroamericane che insegnavano a trattarli, ho imparato a gestirli e a farli crescere in maniera sana, usando prodotti specifici. Ora amo moltissimo il mio capello, è espressione della mia identità e del mio modo di essere: sicuramente è perché ho anche imparato ad amarmi un po’ di più e a sentirmi più libera. Ci sono voluti però 30 anni.

Quanto incide la scelta del nome nella costruzione della propria identità?

Pensa al nome di tua figlia, per esempio: Isabella Zua, davvero bello. Questa cosa della registrazione del nome mi ha segnata moltissimo. Il mio nome doveva essere Maria Elena e, per sbaglio, mi misero Marilena. Ma ho anche un nome rwandese, Umuhoza, ma non me l’hanno voluto assegnare. Hanno guardato mio padre come se fosse stata una stupidaggine. La cosa assurda è che, quando siamo andati all’anagrafe per registrare mia figlia, 30 anni dopo, si sia ripetuta la stessa scena. Mia madre ha scelto per lei il nome rwandese Umutoni ma, nuovamente, si sono rifiutati di registrarglielo. Mi hanno chiesto “Ma perché non la chiamate Maria?”. Per carità, bellissimo nome, ma cosa c’entra?!

Che assurdità. Devo dire, che fra le tante difficoltà che abbiamo avuto, almeno quella del nome ce la siamo scampata…

Chiaro, credo che dipenda proprio dal funzionario che trovi sul momento. Mia figlia sul passaporto americano (mio marito è cittadino statunitense) ha correttamente il suo nome rwandese. Nessun tipo di problema. Questo è anche espressione della chiusura mentale del nostro sistema. Incredibile come singole persone abbiano il potere di limitare la tua identità, negandoti un nome su un documento.

Che consigli ti sentiresti di dare a genitori che si trovano catapultati a vivere questa situazione, vista la tua esperienza da figlia?

Posso dirti che sto riempiendo mia figlia di libri, dove i protagonisti sono neri o comunque bambini che provengono da Paesi diversi. Stesso discorso vale per le bambole, con origini differenti fra di loro. Le dico costantemente che è una bambina bellissima, che ha una grande fortuna. Soprattutto la voglio già preparare, anche se ha solo tre anni: quando andrà a scuola potranno esserci bambini che la prenderanno in giro. Deve saperlo. Io all’asilo ho avuto un’esperienza bellissima, ma in prima elementare è cambiato tutto. Ci eravamo appena trasferiti, ma nessuno mi parlava. Se chiedevo “Possiamo fare i compiti insieme?” la risposta era “No, perché puzzi!”.

Un inserimento facile, insomma…

L’unica volta in cui i miei compagni mi hanno considerata, è stato quando mia mamma aveva preparato una torta per il mio compleanno. Ma il giorno dopo, come se nulla fosse, di nuovo. Ero l’unica persona di origini straniere in tutta la scuola, sia alle elementari, che alle medie. Al liceo, invece, eravamo in tre e – guarda caso – siamo state messe tutte nella stessa classe. Come se avessimo per forza dovuto socializzare, quando in realtà, non avevamo quasi nulla in comune. Una ragazza era stata adottata ed era di origini indiane, un’altra era marocchina. Perché avremmo dovuto per forza avere qualcosa in comune?! Tu, come insegnante, hai un compito davvero importante. Soprattutto avendo una figlia che condivide due culture! Questi bambini hanno davvero bisogno di punti di riferimento. Se ne deve parlare, si deve leggere e raccontare.

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