The End of the F***ing World


The EndAlyssa (Jessica Barden) e James (Alex Lawther) sono due ragazzi di 17 anni alle porte dell’età adulta ma sono molto confusi riguardo al loro posto nel mondo, soprattutto il loro attuale posto nel mondo, che non sembra proprio a loro misura. Da una parte, infatti, abbiamo una famiglia disfunzionale, con una madre assolutamente soggiogata alla volontà di un patrigno cinico, insensibile e probabilmente abusivo (sicuramente verbalmente) e quindi una protagonista che mostra una facciata dura e minacciosa al mondo a mo’ di protezione, ma che cerca una storia d’amore o una relazione umana autentica (con il padre biologico ad esempio) che la salvi da un contesto familiare deludente e doloroso. Dall’altra parte, invece, un protagonista introverso, burbero e scorbutico che pensa di essere uno psicopatico per le sue manie crudeli nei confronti degli animali e che vuole provare questa sua convinzione uccidendo la sua prima vittima umana. Due personaggi particolari, le cui strade si incontrano e li trasformano in una coppia atipica che in otto episodi di venti minuti ciascuno vive una storia davvero coinvolgente.
“If this was a film, we’d probably be American.” (Se questo fosse un film, probabilmente noi saremmo americani). Una delle citazioni più esilaranti e quasi metanarrative della serie tv inglese The End of the F***ing World, che in un certo senso ne rappresenta anche il biglietto da visita. Questo perchè The End of the F***ing World presenta una situazione trita e ritrita, soprattutto per l’appunto nel cinema di stampo americano: la coppia che scopre di condividere gli stessi risentimenti contro la società in cui vive e si ribella ad essa cavalcando l’onda di un amore intenso, nato proprio dal un senso condiviso di estraniamento dalla società o di stranezza a livello personale. Si tratta esattamente dello stesso impianto base di film di matrice americana come Bonnie & Clyde o True Romance o molti altri ancora.
The EndTuttavia, lo sviluppo e i colori scelti per riempire questi linee narrative di contorno stereotipate risultano abbastanza originali da rendere la serie davvero degna di essere vista. Prima di tutto il carattere ironico e noir che contraddistingue sia vicende che personaggi, dando vita ad un genere tragicomico soft che ci guida in un dramma profondo ma impedendo che se ne rimanga troppo coinvolti emotivamente. Questo grazie al tratto noir, fatto di situazioni grottesche e a volte splatter, che si inserisce come “s-collante” fra realtà e finzione. L’aspirazione della serie all’originalità si percepisce non solo da questi particolare mescolanza di generi, ma anche ,semplicemente, nelle parlate fortemente British dei due ragazzi protagonisti. Spesso con un accento degno di Downton Abbey, i due si lanciano in avventure che dello stereotipo pacato e a modo tipicamente inglese hanno ben poco: fughe, furti, auto rubate, cambi di identità, un omicidio, traffici illegali e incontri con persone di dubbia moralità. Solo per citarne qualcuna.
Inoltre, i frequenti monologhi dei due protagonisti riescono a creare una tale tenera e sincera intimità con lo spettatore, che non si può fare a meno di lasciarsi ammaliare dalle loro vulnerabilità nonostante le vicende un po’ esagerate. Per cui, tre cose sono chiare: che la trama della serie non è assolutamente originale; il genere lo è, invece, per la mescolanza inusuale di sotto-generi che si fondono in questa YA fiction (o storia di formazione) marcata Netflix e totalmente diversa dalle storie di formazione dell’ultimo periodo come Thirteen Reasons Why o Atypical; infine, che i protagonisti, per quanto esagerati nella loro stravaganza e stranezza, sono davvero delle figure complesse, travagliate, drammatiche ma assolutamente affascinanti. A conti fatti, se il passaggio dall’adolescenza all’età adulta nei loro casi si connota apparentemente come “the end of the f***ing world”, si spera davvero che non sia “the end” per la serie e che segua presto una seconda stagione.

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