Call Me By Your Name (Colonna Sonora – OST)


“Shall I sleep within your bed

River of unhappiness

Hold your hands upon my head

Till I breathe my last breath” Sufjan Stevens

 

Non sono mai stato attratto dalle colonne sonore, per lo meno se decontestualizzate dalla pellicola per le quali sono state create o assemblate.

Se è vero infatti che, anche recentemente, si sono ascoltate prove artistiche decisamente pregevoli, una su tutte la magnifica opera di Hans Zimmer per la pellicola Dunkirk, poche sono state le Original Soundtrack che nella storia, recente e non, hanno potuto vantare un vero interesse anche sotto forma di album.

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Questo è ancora più evidente se si escludono quelle colonne sonore che sono state create espressamente per l’opera, per le quali il confine tra OST e tradizionale album diviene davvero labile; tra tutte il celeberrimo lavoro di Eddie Vedder per Into the Wild, nonché “The Virgin Suicides” degli AIR per il film omonimo di Sofia Coppola (in italiano “Il Giardino delle Vergini Suicide”) che resta ad oggi persino uno dei loro lavori più apprezzati del duo di Versailles.

Diverso il caso invece di quelle soundtrack che sono frutto di assemblaggio di opere già esistenti che, troppo spesso, al di fuori della loro funzione di accompagnamento delle immagini, non risultano altro che delle compilation (forse nel 2018 dovrei usare il termine “playlist”) che dicono ben poco in termini di prodotto artistico.

 

Nel caso di “Call Me By Your Name” opera cinematografica del regista nostrano Luca Guadagnino, ora nelle sale italiane, due elementi hanno scardinato la mia ritrosia nei riguardi di questo genere di prodotto:

– la presenza di due brani appositamente composti da Sufjan Stevens, uno dei quali appena candidato all’Oscar 2018 come miglior canzone originale;

– la totale dicotomia delle canzoni selezionate.

Se infatti l’”effetto compilation” (nel 2018 “playlist”) è il rischio incombente, questa colonna sonora (nel 2018 “soundtrack”) lo aggira abilmente portando all’estremo il concetto dell’assemblaggio, mettendo in mostra in modo quasi fastidioso la dicotomia tra le due anime che contiene la stessa pellicola: quella classica contemporanea, colta, articolata, a tratti espressionista, e quella spudoratamente “pop”, nel film elemento di contesto (estate del 1983) entro il quale si muove la storia.

La pellicola di Guadagnino, gioca costantemente con il rapporto tra realtà interna ed esterna,  Original Motion Picture – Call me by Your Name riproduce abilmente lo stesso meccanismo in musica: la musica colta come bolla e decontestualizzazione, i brani pop radiofonici come ponte con l’esterno.

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L’apertura del “disco”, e titoli di testa del film, è affidata al primo movimento di “Hallelujah Junction” del geniale compositore statunitense John Adams, di scuola minimalista ma spesso molto vicino alle atmosfere di Steve Reich.

Il brano conduce in un intrico di melodie serrate di pianoforte, che in un crescendo di complessità armonica e sonora, apre la strada al brano successivo, “M.A.Y. in the Backyard”  del maestro Ryuichi Sakamoto, continuo inseguirsi di tensioni e rilassamenti per pianoforte ed archi.

Ed ecco che, all’improvviso, in un misto di sbigottimento e una sensazione simile al jet lag, un basso slappato e una batteria con piglio rock funky introduce  “J’adore Venice”  cantata da Loredana Bertè, che ci ricorda che stiamo comunque parlando del 1983 e che Ivano Fossati in quel periodo scriveva davvero di tutto. (…E tre bottiglie in fila e quattro poi e le risate, che cavolo di nome avessi quella notte non ricordo più).

Sfortuna vuole che nell’estate del 1983 passasse evidentemente in radio anche Paris Latino dei Bandolero, che trova posto al seguito della Bertè; occorre ammettere che a questo punto, la tentazione dello skipping” è davvero invitante.

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Superata la sfidante accoppiata, si arriva così, passando per le opere pianistiche più distensive Frank Glazer e  “Une barque sur l’océan from Miroirs” André Leplante, di sonorità quasi “raveliane”, all’epica patinata di Giorgio Moroder e Joe Esposito con Lady Lady Lady.

La schizofrenia stilistica è talmente estrema da provocare uno spaesamento che inizia quasi ad assumere un suo significato.

Giunti a questo punto ci si trova immersi in uno dei momenti più intensi di questa carrellata: il remix di Doveman del brano “Futile Devices” di Sufjan Stevens, già presente nell’album The Age of Adz del 2010, seguito da Germination, ancora di Ryuichi Sakamoto, già nota per la famigerata OST di Merry Christmas Mr. Lawrence.

L’artista di Tokyo condensa in due minuti le atmosfere a lui più famigliari, in un brano considerabile come un Bignami della sua produzione, che viaggia dall’uggiosa malinconia orientale che lo ha reso celebre, alle spiazzanti tensioni dei passaggi più gravi.

 

A questo punto, giusto per non abituare troppo l’orecchio alla coerenza stilistica, ci troviamo in braccio al synth-pop di “Words” del francese François David (“Don’t Come Easy”, si è proprio lei!), il che è come venire catapultati da un monastero di Kyoto ad un ballo di fine anno del liceo in un secondo; l’effetto è perversamente straniante…

 

 

La fatica di superare il proto-neo-melodico Marco Milani, è una prova dura ma catartica, durante il suo brano “E’ la vita” l’arte dello skipping è praticamente inevitabile, ma si tratta dell’ultimo ostacolo per arrivare alla vera perla di questa raccolta di canzoni, il primo brano inedito di Sufjan Stevens: “Mystery of Love”, brano per altro candidato al premio Oscar come miglior canzone originale.

Il brano del cantautore di Detroit  è il fulcro attorno al quale trova pace la schizofrenia della selezione, sublimando la struttura pop nella raffinatezza classica in un piccolo gioiello riverberante di quattro minuti, con un testo tinto di scoperta, gratitudine e di rimembranza, pennellato con tutto ciò che può evocare la malinconia in musica: un pianoforte accarezzato, corde pizzicate, cori femminili affogati in un mix che sembra trascinarsi a fatica da qualche recesso della memoria… “Oh, to see without my eyes, the first time that you kissed me, boundless by the time I cried, I built your walls around me”.

Avviandosi verso la fine del disco, ci si trova di fronte la sempre elegante “Radio Varsavia” di Franco Battiato, altro brano fortemente evocativo, che narra di un passato cristallizzato in una sorta di esilio temporale, come molti brani di Battiato di quel periodo.

Passando poi per gli Psychedelic Furs, band ingiustamente dimenticata troppo presto, con “Love my Way”, e virando un’ultima volta su un’altra pennellata pianistica con “Le Jardin féerique”, si arriva all’altro brano inedito di Sufjan Stevens: “Visions of Gideon”.

Con la medesima formula del brano precedente, Stevens accarezza le note come accarezza le immagini del film, in un’atmosfera onirica (For the love, for laughter, I flew up to your arms.

Is it a video?) con un finale in cui l’armonia cambia, si fa cupa, greve, per abbandonare infine la scena con la grazia di un ricordo che si consuma.

Si chiude così una colonna sonora che è anche un album spiazzante, curioso nel suo alternarsi dei registri, impossibile da apprezzare per intero, ma che proprio per questo stupisce nell’aprire inaspettati scenari.

Mi ha fatto superare il mio cronico disinteresse per le colonne sonore?

Forse no, perché i casi interessanti restano piuttosto rari.

E’ certo però che lo straniamento che provoca la schizofrenia stilistica di questa raccolta di brani è sicuramente interessante, a tratti fastidioso, a tratti divertente.

E’ certo anche che tra  Sakamoto e Adams, passando per Laplante e Glazer, questo disco è pieno di meravigliose sonate di piano che potranno incuriosire anche chi non frequenta abitualmente questo universo musicale, com’è certo che a molti piacerà l’effetto nostalgia di alcuni brani dell’Italia più pop dei primi ’80, elemento non proprio originale al giorno d’oggi, ma che continua a funzionare.

Quello di cui sono certo personalmente è che Call Me By Your Name OST contiene anche due delicati gioielli inediti di uno degli artisti più interessanti e intensi che popolano il panorama musicale internazionale, gioielli che anche da soli varrebbero la pubblicazione di questa colonna sonora.

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