Fuoco amico


C’era una volta un giovane sui trent’anni, a cui piaceva da impazzire dare fuoco alle cose.

Non lo faceva per noia, frustrazione, ribellione contro l’autorità o simili… no, lo faceva per amore. Credeva che il fuoco fosse la sola vera liberazione, l’unico modo tramite il quale le cose materiali potessero affrancarsi dal mondo. Solo bruciandole, infatti, le si lasciava finalmente libere di disperdersi nell’aria e di tornare parte di quel tutto, di quel kosmos da cui tutto aveva origine.

Andrea, questo il nome del giovane, bruciava perlopiù piccoli oggetti che trovava per strada, accatastati e abbandonati attorno ai bidoni, come vecchi comodini di legno, cassette della frutta, scheletri di biciclette senza manubrio o senza ruote e qualche volta perfino dei materassi Eminflex sbrindellati, con le molle che sbucavano fuori dal rivestimento come tanti sottili vermetti metallici. Lui agiva di notte, quando con il buio raccoglieva gli oggetti e li trasferiva in una zona poco frequentata della città, li ammucchiava e dava il via alle danze.

Nessuno l’aveva mai scoperto, che lui sapesse, e anche se fosse nessuno si era mai lamentato, e Andrea piano piano andava convincendosi che oltre che soddisfare un istinto primordiale stava anche rendendo un servizio alla comunità.

Le cose andarono così per un paio di mesi, poi una sera sua madre tornando a casa dall’ufficio in cui lavorava gli disse che aveva una novità.

-Ti ho trovato un lavoro – disse. -A trent’anni è ora che tu faccia qualcosa – aggiunse, tanto per rincarare la dose. Era un lavoro come ragazzo delle consegne per una pizzeria del quartiere, e dette ad Andrea la possibilità di scoprire che si potevano bruciare anche le pizze. Non tutte quelle che gli venivano affidate per la consegna, sennò Ali il proprietario egiziano se ne sarebbe accorto, solo alcune ogni tanto e se arrivava una lamentela, il suo capo si fidava di lui e dava dei matti ai clienti.

Così invece di suonare il campanello del destinatario, Andrea avvicinava l’accendino alle pizze e le guardava ridursi a duri cerchi neri di bruciato, sembravano quasi dei buchi neri acquattati sul fondo dell’universo, pronti ad ingoiare ogni cosa. E fu così che scoprì che bruciare il cibo era ancora più divertente, ma il divertimento terminò in fretta.

Fu scoperto, da sua madre, una sera mentre dava fuoco al piatto di uova strapazzate ed asparagi che si era portato in camera col pretesto di mangiarlo mentre seguiva la sua serie preferita. Sua madre non si allarmò più di tanto, solo gli diede una regola, cioè che non si possono bruciare le cose che sono utili al prossimo, che così invece di rendere un servizio alla collettività la si danneggia.

Andrea ci pensò su per alcuni giorni, poi decise che lei aveva ragione. Allora, seduto come era sul suo letto, prese l’accendino, girò la ghiera per far apparire la bella fiammetta blu e arancio, e lentamente la avvicinò al suo mignolo sinistro. Dapprima fece oscillare la fiamma intorno al dito, come un leone che vuole incutere timore alla preda, poi si avvicinò più deciso e lambì la punta del dito, si allontanò, si riavvicinò, e così per diverse volte, e pian piano si abituò al calore e si trattenne per sempre più secondi con la fiamma che avvolgeva la sua carne.

Aveva sempre saputo che il fuoco era suo amico, ma non credeva che lo fosse fino a quel punto. Avrebbe dovuto provare dolore, invece era solo un solletichio. Gli vennero in mente quei sacerdoti buddisti che nel Vietnam occupato dagli americani si davano fuoco per strada, in mezzo alla gente, oppure anche quegli operai cassaintegrati o quegli imprenditori falliti che si incendiavano sotto casa o al bar, che aveva visti al telegiornale. Per loro il fuoco era sofferenza e disperazione, per lui era pur sempre sofferenza, ma anche e soprattutto liberazione. 

Un bambino che passava per la strada, quella sera, lanciò un’occhiata verso la sua finestra al secondo piano. La mamma teneva il bambino per la mano e lo sballottava in avanti verso casa. Ho visto una stella dietro una finestra, disse poi il bambino mentre cenavano. E’ impossibile, rispose la madre, le stelle non si vedono dentro le

case, sono in cielo, e ormai con tutto lo smog che c’è non non si vedono più neanche lì. A me sembrava proprio una stella, rilanciò il bambino.

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