Chicago on fire


Quando in ambito NBA o si pensa alle favole incomplete, alle belle storie che non trovano mai o non hanno ancora trovato il lieto fine, di solito vengono in mente quattro squadre: Ocklahoma City Thunder Memphis Grizzlies, ad Ovest e Indiana Pacers e Chicago Bulls ad Est. Tutte e quattro le franchigie si sono consacrate nell’anno di grazia 2010/2011, anche se già dalla stagione prima avevano cominciato a seminare bene. Tutte hanno costruito coscienziosamente i propri roster, puntato su allenatori giovani e motivati che hanno saputo costruire un rapporto solido con stelle altrettanto giovani, che spesso a questi livelli hanno ego inversamente proporzionali all’esperienza e agli anni. Ciascuna coi propri tempi, alla fine sono riuscite tutte a entrare nell’elite della Lega, a fare il salto di qualità da matricole terribili ad avversarie pericolose. Ma da tre di queste è quasi naturale: Memphis e Indiana nella loro storia hanno avuto pochi momenti di luce e molti di ombra, i Thuder erano nati nel 2008 sulle ceneri dei Sonics. L’unica che stonava era Chicago, e i motivi sono facilmente intuibili.

Gli anni d’oro
Dalla fine del secolo scorso, Chicago Bulls vuole dire universalmente Micheal Jordan: le sue schiacciate, “il miglior giocatore della storia del basket”, il Mito e tutto il merchandising che ne è seguito, Space Jam incluso. Per chi se intende, si va un pochino più in profondità: Scottie Pippen, Horace Grant, l’ Attacco Triangolo di Phil Jackson e Tex Winter, Dennis Rodman (che adesso è quasi un ambasciatore con la Corea del Nord…), Steve Kerr, la stagione dei record 1996/97. Ci vorrebbero dieci pagine solo di aneddoti e approfondimenti per ricordare cosa fu e cosa rappresentò quella squadra, tanto che anche chi non è appassionato almeno una volta nella vita ha sentito parlare dei Bulls.
Il punto è proprio questo: dopo la conclusione di quell’era da leggenda, i Bulls non hanno saputo alzare la testa, e dal 1998 per dieci anni sono stati un punto marginale nella mappa del basket, loro che fino al giorno prima ne erano il punto di riferimento. Poi, nel 2008, l’avvento del talento cittadino (ma cresciuto a Memphis University sotto coach Calipari) Derrick Rose cambiò molto, se non tutto: rapido, guizzante, mortifero in penetrazione e dotato di un’ottima tecnica, propiziò l’accelerazione delle prestazioni di Chicago, che divenne presto una delle più realtà. Nei playoff 2009 al primo turno di portò i campioni in carica di Boston alla settima partita, l’anno dopo la miriade di infortuni e l’ultima Cleveland del LeBron 1.0 spezzarono le ali di una squadra che comunque dava del filo da torcere a chiunque. Nell’estate del 2010, quella dei grandi cambiamenti, a Chicago arriva da Boston Tom Thibodeau, che dei già citati Celtics del 2008 era la mente difensiva, mentre Rivers rappresentava la voce e la coscienza. Un coach esperto, il buon Tom, uno che aveva lavorato anche con Jeff Van Gundy a New York e Houston, che veniva descritto da tutti come un lavoratore intelligente e che punta all’essenziale, uno che preferisce parlare piuttosto che sbraitare. Tutto vero, e in un primo momento i risultati arrivano: migliore record della Lega, Rose MVP , e finali di Conference raggiunte e perse contro una Miami obiettivamente di un altro pianeta, dopo aver regolato 4 – 1 l’altra sorpresa Indiana e 4 – 2 la sempre ostica Atlanta. Da lì, però, l’orologio si è fermato, insieme al suo numero 1 e al suo ginocchio.

Se son Rose…
Nelle stagioni successive, i Bulls non vanno mai neanche vicini ai livelli di eccellenza toccati in quel 2010/2011: nell’ordine arrivano un’uscita al primo turno di playoff contro Philadelphia, una al secondo contro Miami e ancora un’altra al primo turno contro Washington, nel 2014.
Chiaramente, a questi insuccessi sono seguite riflessioni, che hanno portato a decisioni anche drastiche: sono stati liberati Boozer, Deng, Brewer e sono arrivati Pau Gasol, e il quasi trentenne Aaron Brooks, che dopo gli anni a Houston si è un po’ smarrito ma che resta una superba risorsa sia nel ruolo di play che in quello di guardia. In più, torneranno molto utili i rookie Cameron Bairstow, Doug McDermott e Nikola Mirotic, soprattutto se seguiranno guide esperte come i veterani Nazr Mohammed, Mike Dunleavy e Kirk Hinrich. Il tutto in attesa che Joakim Noah si ritrovi dopo un periodo di appannamento seguito anche quello a un infortunio. Insomma, i tasselli da mettere a posto sono tanti. Se i Bulls ci riescono, vinceranno il rodeo. E magari l’anello.

 

Approfittiamo dell’articolo natalizio per fare ai nostri lettori il più cordiale e sincero augurio di Buon Natale

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