Progetto HOPE – Selezione (parte 2)


In auto regnava il silenzio. I due energumeni che mi avevano prelevato guardavano entrambi fuori dal finestrino il paesaggio notturno in cui Princeton era immersa. Nessuno di essi pareva prestare molta attenzione a me, come se fossi un invisibile contrattempo, una noiosa pratica da sbrigare. Ovviamente la tensione mi paralizzava completamente, per cui dal momento in cui mi siedetti in macchina rimasi esattamente nella stessa posizione per tutta la durata del breve tragitto.

Ci fermammo infatti circa venti minuti dopo: eravamo in una strada fuori città, poco battuta.

«L’ ideale per far sparire un corpo» mormorai a denti stretti nella mia lingua madre.

«Non tanto come pensa lei» mi rispose una voce placida una voce dietro le mie spalle.

Un ometto smilzo, con occhiali sottili e pettinatura da impiegato postale mi squadrava divertito. Il mio sguardo doveva essere più eloquentemente interrogativo di me, perché subito di affrettò a dire: «Mi creda, non vogliamo farle del male. È nostra intenzione non farle perdere più di tempo di quello che sarà necessario per spiegarle il progetto HOPE».

Prima che potessi aprire bocca, un silenziosissimo mini jet si venne atterrò sulla strada deserta e si fermò a pochi metri da noi. Ne discese una donna sui venticinque anni, castana, non molto più alta dell’ uomo che mi aveva appena parlato.

«Appena vuoi, siamo pronti a partire, Andy»

«Molto bene, grazie, Joan». Poi si rivolse a me: «Se vuole avere la bontà di seguirmi, mister Meijer, posso fornirle le spiegazioni che certamente desidera»

Ero allucinato, non ci potevo credere. Per farmi forza, mi dissi: «Siamo in ballo, balliamo».

Saliti sul mezzo, Andy diede l’ ordine: «Joan, decollo».

«Posso almeno sapere dove siamo diretti?» gli chiesi, con l’ aria che lui tempo dopo avrebbe definito da pesce lesso.

La risposta fu diretta: «Washington DC».

Non feci neanche in tempo ad obiettare che i motori in un attimo si accesero e il jet decollò. Durante il viaggio mi continuavo a ripetere che era un sogno, che la mattina mi sarei svegliato nel mio letto della mia bella università, con i miei magnifici libri sulla mia scrivania. Logicamente, questo tentativo si rivelò infruttuoso.

Arrivammo a Washington DC in tre quarti d’ ora spaccati, roba da guinness dei primati se ce fosse stato uno apposito. Scendemmo in una campagna desolata, con qualche campo coltivato tutt’attorno. E per il resto, il nulla, a parte un capannone malandato che sembrava stare su per miracolo. Sembrava.

Quando Andy e Joan lo aprirono infatti, mi si presentò davanti una struttura interna ad alta tecnologia: le luci al neon mostravano un salone bianco pieno di strani apparecchi. E, esattamente al centro, delle scale mobili che conducevano in basso. Le prendemmo e ci fermammo al primo piano, in quella che era, stando alla targhetta sulla porta, la sala riunioni.

Entrammo, e subito trovai altri quattro ragazzi più o meno della mia età. Una ragazza bionda con gli occhi grigi, un colosso che sembrava provenire dall’ Est europeo, una rossa timida che aveva lo sguardo ancor più scosso del mio e un giovane giapponese che non lasciava trasparire alcuna emozione. Ci dissero di aspettare, ed è ciò che facemmo, in silenzio.

Finalmente entrarono Andy e uno dei due agenti che mi avevano prelevato, quello di colore.

«Salve a tutti, io sono Andy Cole, il general manager del progetto HOPE. Questo è David Beckham, il nostro direttore delle operazioni di campo, o direttore esecutivo, se preferite. Questa che sta entrando ora è Joan Crawford, il nostro pilota. Prima che me lo chiediate sì, sono tutti nomi in codice». Fece una piccola pausa, per permettere a tutti noi di interiorizzare la cosa, poi riprese: «Dunque andiamo subito al sodo: il progetto HOPE nasce per volere di un ex premier di un paese che attualmente fa parte del G8, che dopo il termine della sua carica politica ha deciso di mettere insieme uomini, conoscenze e tecnologie che permettessero di risolvere quelle determinate situazioni di guerra che le grandi potenze del pianeta o non vogliono affrontare, o addirittura sostengono».

«Sensi di colpa?» ghignò il colosso dell’ Est.

«Potremmo anche vederla così, signor Jankovic» sorrise Andy

David intervenne: «Oppure semplice filantropia. Comunque vogliate vederla, HOPE nasce con la volontà di offrire un contributo dove c’è più bisogno».

«Sì, ma noi cosa c’ entriamo?» chiese perentoria la bionda.

«Ci stavo arrivando, miss Wilkins» ribatté con la solita flemma Andy: «Voi siete qui perché, al momento, siete gli unici che sono stati rilevati come dotati di capacità che fuoriescono da quelle normalmente in possesso della specie umana»

«Superpoteri, quindi» si inserì in ragazzo giapponese

«Definizione un po’ sbrigativa, signor Sasaki, ma sì, li si possono chiamare super poteri. E voi, voi tutti, se accetterete di far parte di questo programma. Con un adeguato addestramento avrete l’ occasione di far qualcosa per il mondo, di contribuire a renderlo un posto migliore. Qualcuno di voi è qui da qualche giorno, altri da poche ore, altri sono appena arrivati. Non vi chiediamo di prendere una decisione subito, ma solo di riflettere: sareste disposti a mettere le vostre capacità al servizio dell’ umanità?».

Ci guardammo l’ un l’ altro senza fiatare.

(2 – continua)

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