Boulevard of broken dreams: i sogni spezzati di Milano e New York


Qualche eventuale tifoso dell’ Olimpia che dovesse leggere il titolo magari sarebbe portato a fare gli scongiuri. A maggior ragione in questo weekend che vedrà il Forum di Assago ospitare le Final Eight di Coppa Italia per il secondo anno consecutivo. La speranza, per chi sostiene l’ EA7 è proprio quella di riuscire ad alzare un trofeo, diciotto anni dopo l’ ultimo (lo scudetto vinto con Tanjevic in panchina e Gentile, Bodiroga e Fucka in campo). Abbiamo già trattato di come Milano, per assaporare un successo che manca da così tanto tempo, abbia venduto l’ anima ( o, per meglio dire, l’ abbia comprata) a quello che è stato il suo diavolo negli ultimi sette anni: la Mens Sana Siena.

Ciò che si vuole mettere in luce, tuttavia, è la similitudine tra due realtà metropolitane come New York e Milano, che da punto di vista cestististico escono da un decennio che definire “travagliato” è essere eufemistici. Olimpia e Knicks hanno fatto brillare gli occhi nel passato ai loro rispettivi paesi. Quasi a darsi il cambio, quando finì il primo ciclo milanese, con Rubini in panchina, dall’ altra parte dell’ oceano iniziava quello di Red Holzman, in un ideale passaggio del testimone tra due venerabili maestri che notevolmente contribuito allo sviluppo della pallacanestro. Ideale neanche troppo, considerando che in entrambi i cicli ci fu la mano Bill Bradley, uomo (non solo giocatore, uomo) descritto da tutti come dotato di un quoziente intellettivo elevatissimo. Lo prova il fatto che sia arrivato a un passo dalla candidatura per la presidenza degli Stati Uniti, battuto da Al Gore all’ alba del nuovo millennio. Con lui Milano vinse la prima Coppa Campioni, e New York i suoi due unici anelli.

Poi, misteriosamente, entrambe le due società si sono spente. Pur continuando a essere cuori pulsanti dell’ economia, mete ambite per lavoratori e turisti, luoghi di immaginario collettivo dove si strofinavano i cervelli l’ uno contro l’ altro (per dirlo alla Michel de Montaigne), hanno smesso per lungo tempo di essere un punto di riferimento nel mondo del basket. Con le eccezioni del ciclo milanese di Peterson negli anni ’80 e di quello newyorkese di Pat Riley alla fine del secolo scorso, le due grandi metropoli non sono più riuscite a produrre una pallacanestro degna del rango che si erano costruite nei loro rispettivi paesi.

Peggio: dal 2000 in qua hanno prodotto stagioni deludenti, investendo tantissimo e producendo in proporzione una miseria. I Knicks hanno potuto schierare negli anni Marcus Camby, Stephon Marbury, Tracy McGrady, Chauncey Billups, mentre Milano ha avuto Bulleri, Galanda, Hawkins, Nicholas, Bourousis. Tutti elementi in grado di fare la differenza, eppure tutti in qualche modo sconfitti, soggiogati forse dalla fame di vittorie che attanagliava le due realtà.

Ora, mentre Milano sembra pronta a spiccare il volo, New York ancora non ha trovato il bandolo della matassa. Gli Altri Big Three, Anthony – Stoudamire – Chandler, non hanno un rendimento all’ altezza della maglia che indossano, e l’ arrivo di Artest (ci rifiutiamo di chiamarlo con il suo nuovo nome, scusate) e Bargnani non serviva certo per esplorare orizzonti di vittoria.

Milano e New York, Olimpia e Knicks. Due città brillanti, due società importanti per un passato che stenta a ritornare. Sono state accomunate da giocatori e allenatori: alla spicciolata ricordiamo John Gianelli, Bob McAdoo, Rolando Blackman,Danilo Gallinari, Mike D’ Antoni (lo stanno rimpiangendo, nella Grande Mela, dopo i disastri di Woodson). Per il resto della stagione che viene, e nelle prossime, dovranno esserlo anche nelle vittorie. Ne va del loro blasone.

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