L’ultima parola


Il dottor Andor Gaboll, seduto alla scrivania del suo studio, sospirò rumorosamente. Quel vecchio stronzo c’era riuscito, a metterlo nei casini. D’accordo, la persona in questione, ovvero il suo unico compagno di stanza ai tempi dell’Università della Carnea e successivamente suo invidiato collega era anche deceduto, proprio qualche secondo dopo avergli giocato quello scherzetto, e la mancata pietà verso i defunti non era più sanzionata penalmente dai tempi della Tirannide, certo, ma restava comunque quantomeno conveniente non mostrarsi troppo astiosi nei confronti di chi ci aveva lasciati. Ma Seritan… no, Gaboll non riusciva a pensare a lui con serenità, nemmeno ora che si era tolto dalle scatole. Solo lui sapeva la parola chiave, l’ultima necessaria per attivare l’elaboratore definitivo. Soltanto lui, e ora era morto.

Gaboll aveva appreso la notizia direttamente dal giornale, quella mattina, perché non era più in contatto direttamente con il dottor Seritan da decenni, e a maggior ragione ora che i loro due istituti di ricerca erano tornati a lavorare insieme ad un progetto innovativo per il genere umano, lui aveva lasciato ai suoi assistenti, giovani e propositivi, ogni incombenza che prevedesse il contatto diretto con l’ex amico. Per loro entrare in contatto con Seritan era un onore e un’immensa opportunità, lo si leggeva chiaro come il sole nei loro occhi e sui loro visi, e Gaboll era sicuro che al cospetto del collega si comportassero più come fan isterici davanti al loro olocantante preferito che come seri e compassati ricercatori di informatica psicoanalitica. Ma andava bene così. Il più giovane di loro poi, la dottoressa Elmir, una donna alta e dalle forme molto invitanti, non faceva mistero del fatto che avrebbe preferito l’equipe di Seritan a quella di Gaboll se avesse potuto, ma il primo ormai da decenni non accettava più collaboratori e lavorava ai suoi progetti rigorosamente da solo, per cui non le era rimasta altra scelta.

Il giornale di quella mattina, recapitato puntualmente dalla domestica androide sul tavolo della colazione, recava un titolo a caratteri cubitali che prendeva tutta la larghezza della pagina: GENIO DELL’INFORMATICA TROVATO MORTO. SI INDAGA. Ora, al di là della smorfia di disgusto modulata da Gaboll alla vista della parola “genio”, il resto lo lasciò piuttosto scosso. Detestava Seritan, certo, perché pur lavorando da solo era riuscito a brevettare cose a cui nemmeno lui era arrivato in più di trent’anni di sperimentazione, lo odiava perché non se la tirava e stava simpatico ai giornalisti, e per questi motivi riceveva parte dei premi che sarebbero spettati anche a lui. E il suo sentimento di antipatia crebbe ancora di più, non appena comprese che la morte dello stimatissimo collega avrebbe reso ancora più celebre la sua ultima scoperta, oscurando completamente il lavoro della sua equipe e, in definitiva, il suo. Un secondo dopo, un pensiero lo assalì feroce come un puma che balza fuori da un cespuglio della giungla: le parole chiave. Il progetto C-57. Piuttosto agitato, il dottor Gaboll prese immediatamente il telefono e compose un numero.

 

-Come sarebbe che ne manca solo una?

-Quello che ho detto. Il problema è che questa è l’ultima.

Sandor Kirin aveva l’aria di chi si era svegliato molto prima del solito quella mattina, e l’ampia tunica rosso carminio che lo avvolgeva lasciandogli scoperta solo la grossa testa non attenuava questa impressione. Parlava con voce impastata e avvilita, consapevole di quel che era accaduto. D’altronde il progetto era finanziato da lui, e lui dal punto di vista prettamente economico era quello che ci rimetteva di più.

-Ci sarà pure qualcuno che era in contatto con…

Seritan lavorava da solo. Te lo sei dimenticato? E da solo significa che nel suo laboratorio c’era solo lui. Nemmeno un assistente o qualcuno che gli servisse caffè caldo e un toast in corrispondenza dei pasti. Del resto, mangiava pochissimo.

-Io ve l’avevo detto, che era così. Che non potevamo affidarci a uno come lui, uno che…

-Lo so, il rischio era altissimo. Ma era il migliore. Mi dispiace ammetterlo davanti a te, ma..

-Non preoccuparti. Le leggo le riviste scientifiche. So anch’io cosa pensa la gente.

La gente pensa che sia stato tu a ucciderlo. Come una specie di Salieri con Mozart, ma adattato ai nostri tempi.

-Non ti chiedo chi sarebbe Mozart.

-Bravo.

-Resta il fatto che bisogna capire quale sia l’ultima parola chiave. Diversamente, avremo buttato nel cesso gli ultimi cinque anni di ricerca scientifica e, cosa parimenti importante, i miei soldi avranno fatto la stessa fine. Faccia qualcosa, e in fretta.

Sandor puntò i suoi occhi in quelli di Gaboll, e lui abbassò i suoi a incontrare il pavimento.

 

Nel pomeriggio Gaboll convocò gli assistenti. Sul volto della Elmir erano visibili segni di lacrime cancellate con dosi massicce di trucco, che tuttavia si sarebbe ben presto sfaldato sotto le nuove ondate che tra poco sarebbero arrivate. Gli altri tre ricercatori erano ragazzotti dallo sguardo vispo, tutti topi di biblioteca convertiti alla ricerca da laboratorio, che non avevano perso l’inclinazione a compiere massicce ricerche teoriche su un argomento, prima di sentirsi in grado di esprimere una seppur minima e circostanziata opinione. Era questo ciò che preoccupava Gaboll, questo che rendeva la Elmir, per quanto odiosa, la migliore dell’equipe.

-Ragazzi, la situazione è questa. I finanziatori sono su tutte le furie con Seritan, ma sanno bene che era un rischio che avevano accettato. Ora però, pare che se non troviamo subito una soluzione, se la possano prendere anche con me, e di riflesso con voi.

Il problema è che manca l’ultima parola, giusto?

 

Uno dei ragazzi, Marr, trovò il coraggio per inserirsi nel discorso.

-Esattamente. Qualcuno di voi è mai stato al laboratorio Seritan?

Gaboll represse un moto di fastidio nel vedere i volti dei ricercatori accendersi nell’udire il nome di quel luogo. In ogni caso, non c’erano vie d’uscita. Era quella la sola cosa da fare.

 

Il laboratorio in cui il dottor Seritan si era ritirato, ormai più di vent’anni prima, in un esilio volontario interamente dedito alla scienza, si trovava parecchi chilometri ad est di Nuova Londra, in un’area pianeggiante che era quello che restava della deliziosa campagna inglese prima che il virus M-203 iniziasse a diffondersi. Una costruzione quadrata, in metallo chiaro, con un’unica porta d’ingresso e nessuna finestra, racchiudeva ora alcuni agenti della Polizia Terrestre, distaccati lì a presidiare la salma di Seritan. Il dottore era stato trovato con in mano un flacone di acido cloridrico, e gli effetti della corroborante bevuta erano ben visibili sul suo corpo, per quanto i medici avessero tentato di ricomporre la salma prima di imbalsamarla, come voleva la prassi. Le tre stanze del laboratorio erano preda di un estremo disordine, con letteralmente quintali di carte e fogli ruvidi sparsi in ogni dove, dai ripiani ai pavimenti, e strani congegni dall’aria sporca e obsoleta accatastati sulle mensole.

E questo era l’uomo su cui l’umanità faceva affidamento” rifletté sconsolato Gaboll, convincendosi ancora di più che al mondo non c’era giustizia. Gli agenti scortarono lo scienziato e gli assistenti fino alla stanza più grande, sul fondo dell’edificio. Qui, oltre al solito disordine, Gaboll vide qualcosa che gli fece trattenere il respiro.

-E’ lui. Eccolo.

Non riuscì a trattenere un tremito nella voce. L’elaboratore 9000, l’ultimo prototipo di Seritan, quello a cui la sua equipe stava collaborando. Mancava così poco ormai, al suo perfezionamento… e i vantaggi per l’umanità sarebbero stati immensi, era chiaro. Un elaboratore in grado di sedare controversie di ogni tipo, da quelle tra Stati a quelle tra privati cittadini, avrebbe potuto eliminare istantaneamente ogni forma di scontri sulla faccia della Terra.

-Eccoci qua. Il dottor Seritan, prima di andarsene, ha pensato bene di comunicare di aver terminato l’inizializzazione dell’elaboratore, ma non ha fatto in tempo a fornirci la parola chiave finale necessaria per avviarlo.

-Per cui…

-Per cui, ora faremo quello che io aborro più di ogni altra cosa, ma non abbiamo scelta. Faremo dei tentativi.

Su un lato dell’elaboratore si apriva una sottile fessura, larga a malapena per inserirvi uno dei fogli accatastati in un angolo del laboratorio.

Ognuno di noi comincerà ad inserire una parola su quei fogli, e la daremo in pasto al computer, sperando che sia quella giusta. Ora, voi non conoscevate Seritan ma io sì, e vi assicuro che non era un uomo normale, di quelli che scelgono come parola chiave il nome del gatto o la data di nascita sua o qualche parente. Che per inciso, non aveva.

Per prima provò la Elmir, scarabocchiando alcuni numeri su uno dei fogli e imbucandolo nella fessura. Qualche secondo, e con un rumore sordo il computer risputò fuori il foglio, restando inerte.

Gaboll sospirò. –Non era quella. Avanti un altro.

Furono fatti diversi tentativi, ma tutti senza risultato. Dopo la Elmir, che nonostante l’ammonimento del suo superiore aveva inserito la data di nascita di Seritan, gli altri assistenti provarono con nomi di invenzioni o scienziati, nomi di animali, costanti matematiche, ma nulla. La parola chiave non saltava fuori. Gaboll si stava spazientendo, e l’odio verso Seritan se possibile aumentava sempre di più invece di diminuire.

-Le abbiamo provate tutte. Non riusciamo a capire quale sia.

Marr era avvilito e sconsolato, così come il resto degli assistenti.

-Lasciate provare a me.

Gaboll esitò per qualche secondo, come se stesse riflettendo su un improvviso quanto inspiegabile lampo di genio, poi si fece avanti a prendere un foglio, e dando le spalle agli assistenti lo inserì nella fessura. Qualche secondo dopo la macchina lo risputò, e un suono non troppo diverso dal gracidio metallico di prima viene emesso dall’elaboratore, ma questa volta le luci nel pannello comandi si illuminano e sembrano impazzite, mentre sullo schermo blu scuro del computer iniziano ad apparire indicatori di processi d’avviamento.

Non ci credo. Ce l’ha fatta.

Gaboll non fece caso all’eccitazione dei suoi giovani allievi, e se li lasciò alle spalle diretto ad un telefono, con un sottile sorriso sulle labbra. Loro cercarono di fermarlo, in preda ad una forte agitazione mista ad entusiasmo.

-Qual’era, professore? Ce la dica! Qual’era l’ultima parola?

Gaboll lasciò scivolare in terra il foglio recuperato dall’elaboratore. La Elmir non poté credere ai suoi occhi quando vide che su di esso non era stato scritto nulla, ma era intonso e candido come la prima neve invernale.

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