Aspettando Sammaurock: intervista a Maria Antonietta


Rockit l’ha definita «una piccola Nada, con buonissime potenzialità per diventare un’assoluta bomba». La sua biografia la descrive come «una ragazza con la chitarra e litri di sangue versato».
Lei, semplicemente, si fa chiamare Maria Antonietta.

E con questo nome Letizia Cesarini, dopo l’esperienza con gli Young Wrists e l’album solista in inglese, decide di titolare il suo primo disco in italiano (Picicca Dischi).
Un album che hadiviso, una scrittura schietta, una voce unica.
E un tour intensissimo, che la porterà anche a San Mauro Pascoli (FC) lunedì 6 agosto a chiudere la prima serata del Sammaurock.

In attesa dell’evento, ci ha concesso un’intervista. Ecco cosa è emerso.

 

Vorrei partire parlando del tour. Tantissime le date avute e ancora da fare, il rapporto con la band sul palco, la risposta del pubblico. Sei soddisfatta di come sta andando?

L’esperienza di questo tour è molto bella, perché le date sono tante, tutte in contesti belli e con band in gamba; il feedback del pubblico è positivo, e il tutto supera le mie aspettative. Quindi sono innanzitutto molto felice di avere la possibilità di fare questa cosa.
Suonare con la band è molto divertente, e mi sta insegnando cose che altrimenti non avrei capito: sono sempre stata abituata a muovermi in solitaria, mentre ora che suono con altre persone vengono a crearsi equilibri nuovi.

Sono molto felice di tutto ciò, e molto grata a tutti quelli che lavorano per potermelo permettere.

 

Siccome è la prima volta che affronti un tour a livello professionale, mi piacerebbe sapere com’è cambiata la tua vita passando a suonare con ritmi così serrati.
La vita da tour dà tanto, ma immagino tolga anche qualcosa.

Più che altro è una questione di organizzarsi i tempi. Stando tanti giorni fuori, durante la settimana, bisogna riorganizzarsi un po’ la vita, gli spazi: cercare di razionalizzare un po’ tutto.
Però non penso di avere una visibilità tale da condizionare la mia vita, o influenzare le mie scelte di vita quotidiana.

Sicuramente la vita da tour toglie delle cose. Per esempio, vedo i miei amici molto meno. I giorni in cui riesco a tornare in città, cerco di trascorrerli con la mia famiglia e il mio fidanzato. Ho sempre fatto poca vita sociale, e ora si sta riducendo ulteriormente: non sono molto mondana.
Suonare porta ad avere dei tempi molto dilatati, vado a letto tardissimo e ne soffro; quindi quando torno a casa cerco di godere al massimo il mio essere casalinga, e la mia già esigua vita sociale non esiste più.

Però è vero che ti dà anche tanto altro, e vale la pena fare il piccolo sforzo che si fa, perché è una cosa talmente bella che non mi lamenterò mai di farla.

 

Quello musicale è un ambiente in generale fortemente maschile. E anche il tuo, soprattutto in tour, tra management e componenti della band, è fortemente maschile.
Come ti trovi?

Sono fortunata, perché stimo molto le persone con cui collaboro strettamente, e porto loro rispetto; di conseguenza, loro rispettano me.
Sicuramente devi essere attenta: ci sono dinamiche che, da donna, ti sono estranee. Giri per festival o nei club e raramente c’è una donna con cui fare due chiacchiere. È un po’ triste: mi piacerebbe ce ne fossero di più.
Però se ci si comporta in maniera tranquilla, con sincerità e trasparenza, cercando di fare quello che si deve con umiltà, non si incontrano grandi problematiche. Incontro piccole difficoltà come chiunque cominci a fare una cosa, in un mondo nuovo: perché questo è il primo tour serio che faccio, quindi è tutto un po’ nuovo. Bisogna stare attenti a non farsi mangiare la faccia, perché ogni tanto ci provano.

E ogni tanto capita ci siano tensioni, ma penso si debbano affrontare con tranquillità, ed è giusto così: altrimenti sarebbe tutto molto facile, e troppo comodo.

 

Passando al disco “Maria Antonietta”, ho notato la presenza di alcuni elementi ricorrenti lungo i tuoi testi.
Quelli che mi hanno colpita di più sono i concetti di verità e di merito. Come mai hai voluto insistere in particolare su questi concetti?

Nel momento in cui ho scritto quelle canzoni stavo vivendo mesi difficili di crisi; crisi nei rapporti, nelle certezze: crisi della mia vita in generale. Quindi riflettevo su tutto questo, e scrivendo quelle canzoni cercavo di elaborare ciò che mi stava succedendo.

Quei mesi sono stati caratterizzati sostanzialmente da mancanza di verità, intesa come assenza di trasparenza nei confronti delle altre persone, di me stessa: avevo  una percepzione un po’ distorta della realtà. E l’avevo perché io in primis non ero onesta, quindi io per prima sentivo una grande necessità di verità, che deve essere alla base di tutto. Un grande bisogno di verità, dovuto al fatto che ce n’era grande mancanza.
Il merito è strettamente legato al concetto di verità. Se non sono vera, e nella mia vita non c’è niente di vero, non posso meritarmi di essere felice,  perché la felicità richiede un grande impegno e – per come vivo io la questione – assoluta verità in ciò che si fa, nelle cose che si dicono, nelle persone che si amano. Se non sei vero, non puoi essere felice: questa è la mia posizione “ideologica”.
Quindi verità e merito sono due concetti molto importanti per il disco.

 

Alla luce di ciò che hai detto, il disco è una grande dimostrazione di coraggio. Mettersi a nudo in maniera così limpida e vera non è facile.

Il concetto è proprio questo. Nel disco c’è verità.

A prescindere dal valore artistico delle canzoni, che ci sia o meno, o che venga riconosciuto e no, il punto di forza di quello che faccio è la verità. Probabilmente all’inizio non ce n’era una piena consapevolezza: avvertivo la necessità di essere vera, che si è concretizzata nel disco.  E dopo averlo fatto, dopo avere smesso di mettere una barriera tra me e le cose, dopo aver trovato il coraggio della verità, sono stata molto meglio. E adesso sono molto felice.

 

Dopo le esperienze di scrittura in inglese, pensi che la veste in italiano sia quella che ti rappresenti meglio?

Sì. Il tenore dei testi e la modalità di scrittura non sono cambiate nel passaggio all’uso dell’italiano, però la necessità di verità mi ha portato a usare una lingua differente. Solo usando l’italiano mi scontro veramente con le persone, e arrivo a essere veramente compresa, anche a costo di essere aspramente criticata. Solo così sono onesta pienamente, perché ho tolto il filtro enorme dell’inglese. E più che una decisione, è stata una cosa che ho sentito di dover fare.

 

Come è avvenuto l’incontro con Matteo Zanobini, e l’ingresso in Picicca Dischi?

L’incontro è avvenuto in maniera abbastanza casuale, perché Matteo aveva sentito alcune mie canzoni in inglese, che gli piacquero, e quindi in semplicità mi disse che quando avessi scritto cose in italiano, gliele avrei dovute mandare nella prospettiva di farne un disco.
Quando ebbi i pezzi in italiano, li registrai col cellulare, glieli mandai via mail, gli piacquero, preparai i provini e a quel punto ci venne questa idea di fare il disco prodotto da Dario Brunori.

Purtroppo o per fortuna nessuno da solo riesce mai a fare una cosa dall’inizio alla fine, che funzioni e raggiunga tante persone. Ci vuole sempre un lavoro di squadra. E siccome sono molto fortunata, questa fortuna si è svelata anche nell’avere avuto la possibilità di lavorare con delle belle persone.

Ma tutto ebbe inzio da lì. Da un incontro casuale.

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