Estopia – Capitolo XIII – Gemini


Capitolo precedente: Verso Estopia

 

Estopia di A. Antonioni

Esisteva un luogo, lontano nel tempo, dove la pioggia non cessava mai di cadere. Un luogo dove, con il sole o nell’oscurità, d’inverno o d’estate, di giorno e di notte, ettolitri d’acqua si riversavano dal cielo e ampi bacini fluviali collegavano le rade terre emerse. Gli abitanti utilizzavano piccole zattere e imbarcazioni per spostarsi da un isola all’altra indossando lunghi mantelli scivolosi per ripararsi dalle intemperie.

Un giorno, il livello dell’acqua salì così tanto che il Sovrano, che era anche uno stregone, praticò un potente incantesimo che sigillò le nuvole in una zona altissima dell’empireo. Così, la pioggia smise di cadere e la Terra di Henn e i suoi abitanti furono salvi. Quell’incantesimo, tuttavia, fu talmente enorme che costò la vita al Sovrano. Da allora, i suoi eredi governarono il Paese e mai più nemmeno una goccia d’acqua bagnò il suolo.

La terra, che in quei lunghi anni di pioggia incessante aveva assorbito un enorme nutrimento, non inaridì, rimase fertile e ricca e i suoi abitanti continuarono a coltivarla per secoli. L’unico luogo dove la pioggia non smise di cadere, fu la Città di Estopia che ospitava il castello e la famiglia reale. Non era più il diluvio torrenziale, durato tanto a lungo, ma una pioggia sottile, una nube di acquerugiola sospesa e la gente seguitò a vivere in quel luogo. La nuvola di vapore, però, sempre presente, modificò l’atmosfera della Città e finì con l’isolarla dal resto del Regno. Così, nei secoli, la Città di Estopia, i suoi sovrani e la memoria della pioggia eterna, si allontanarono nello spazio, fino a svanire nel ricordo degli abitanti della terra di Henn, divenendo quasi una leggenda.

In pochi rimasero ad avere consapevolezza di come tutto fosse iniziato e, quando anche quei pochi morirono, non vi fu più nessuno in grado di testimoniare il principio. Soltanto in alcuni antichi testi, quasi in forma mitica, si conservarono accenni al Paese della Pioggia e quei testi rimasero tanto a lungo chiusi in remote biblioteche che le tracce della verità si cancellarono poco a poco dal tempo presente.

Ed infine, svanirono.

Ma la Città continuò ad esistere, nascosta, lontana nella nebbia finché un giorno un membro della famiglia reale, un uomo perfido e assetato di potere, liberò un Dökk, il drago infernale, una bestia spietata intrappolata nelle profondità della terra dal dio Flóð, protettore di Estopia. Grazie al potere del Dökk, l’usurpatore uccise il proprio fratello maggiore, legittimo erede al trono e fece imprigionare l’anziano Sovrano, suo padre, impossessandosi del trono. Il nuovo Re, desideroso di tornare a regnare non solo sulla Città ma su tutto il Mondo di Henn sciolse il potente sigillo che era stato imposto alle nuvole. La pioggia riprese a scrosciare e, gradualmente, si sarebbe di nuovo riversata su tutto il continente, ristabilendo l’equilibrio atmosferico che avrebbe consentito alla Città di Estopia di ricongiungersi alla Terra di Henn. I saggi consiglieri del vecchio re sapevano che, in pochi lustri, questo avrebbe decretato la fine del mondo conosciuto, perché la pioggia avrebbe ricoperto ogni cosa e non ci sarebbero stati incantesimi abbastanza efficaci per frenare la furia degli elementi.

Gli eredi legittimi del sovrano imprigionato vennero allontanati, perché sfuggissero alle mani dell’usurpatore. Accompagnati da quattro sacerdoti e protetti da antiche formule magiche furono nascosti in un luogo remoto della Terra di Henn, un piccolo borgo che non aveva mai conosciuto battaglie, né intrighi, né potere.

Né pioggia.

Un luogo talmente estraneo alla Città che nessuno dei suoi abitanti, nemmeno tra i più vecchi, ricordava ancora la leggenda della Regno.

Nascosti in quel villaggio, crebbero al sicuro, nonostante gli stregoni del Sovrano rimanessero all’erta per rintracciarli: Estopia era ancora troppo isolata dalle nebbie perché potessero essere inviati emissari sul Continente a cercare gli eredi e le arcane magie che i vecchi saggi avevano praticato, risultarono impenetrabili per il potere mentale dei servi del Re.

Un gruppo di ribelli riuscì infine a liberare il vecchio sovrano che debole e malato, si rifugiò nella foresta che separava la Città dal resto del continente e lì, protetto da incantesimi di occultamento, attese il ritorno dei nipoti. La resistenza, troppo esigua per opporsi all’esercito e ai guerrieri infernali evocati dall’usurpatore, non poté che rimanere nascosta in attesa che gli eredi, richiamati dal loro destino, intraprendessero il lungo viaggio di ritorno per tentare di riguadagnare il trono.

Questo finché, un giorno, le nubi furono abbastanza vicine da fare la loro ricomparsa sul continente e, durante una lunghissima notte, riversarono i loro strali su tutto il mondo emerso, sferzando violentemente il piccolo paese di Belafois e annunciando che presto, molto presto, la porta tra la Città e il resto del mondo si sarebbe aperta di nuovo, scatenando l’invasione del magico esercito dell’usurpatore.

Quella notte, la pioggia scrosciò ovunque ma solo pochi furono coloro in grado di leggere in quel nubifragio il segno della catastrofe imminente. I più, ignari, assistettero allo spettacolo con paura e disagio, quelli tra loro che erano spavaldi lo osservarono con eccitata curiosità ma cessarono di preoccuparsene man mano che i giorni ne allontanarono il ricordo.

Durante quello spaventoso diluvio, però, gli eredi ricevettero la visita di un oscuro messaggero che annunciò loro il compiersi del tempo atteso. Così,  quando la pioggia fu cessata, iniziarono il lungo viaggio che li avrebbe ricondotti nel cuore perduto del loro Regno, la Città di Estopia.

 Il giorno successivo i due giovani avanzarono senza intoppi tra la vegetazione lussureggiante ma quello dopo ancora dovettero guadare un largo fiume dalla corrente impetuosa. Luthen gettò un incantesimo su un grosso tronco che li traghettò dall’altro lato ma i loro vestiti si fradiciarono e, a causa dell’umidità, la sera erano ancora completamente bagnati. Freyja rabbrividiva nella lunga gonna che le aderiva alle gambe ad ogni passo ma non osava chiedere a Luthen di fare qualcosa perché i loro abiti si asciugassero. Lui, d’altronde, non sembrava avvertire il disagio del freddo: era teso, concentrato e sembrava restio a praticare magie. Forse, pensò Freyja, non voleva essere individuato dai suoi nemici e se avesse abusato dei suoi poteri sarebbero stati più visibili.

Dalla sera del sogno non avevano più parlato. Lui non le aveva più detto niente, sembrava a malapena accorgersi della sua presenza. Freyja era stanca ma non aveva paura: continuava a nutrire un’assoluta, inspiegabile fiducia nel suo compagno ed era convinta che avrebbero trovato il modo di cavarsela se fossero rimasti insieme.

Di cavarsela poi, da cosa? Questo non riusciva a capirlo, Lidia non era mai stata chiara in proposito ma Freyja sentiva che il momento della verità era vicino.

La terza mattina affrontarono una ripida salita che si trasformò presto in una vera scalata: davanti a loro si ergeva un’imponente parete rocciosa che, sembrando spuntare dal nulla, svettava nella pianura erbosa. L’arrampicata li impegnò per quasi tutta la giornata e quando arrivarono in prossimità della cima Freyja era, nel vero senso del termine, allo stremo delle forze. Luthen, come di consueto ormai, procedeva muto e frenetico ma, da quando lei aveva rischiato di soffocare, aveva deciso che fosse Freyja a dover avanzare per prima; lui la seguiva da presso ma questo implicava che Freyja non potesse praticamente fermarsi neanche per respirare, costantemente incalzata dal compagno-inseguitore.

Dopo molte ore e molte alzate di occhi verso l’alto, esausta, poté constatare di essere a poche decine di metri dalla vetta e, facendo appello a tutta la sua volontà, Freyja cercò di accelerare. D’un tratto, la cima sembrò più vicina di quanto non avesse immaginato e, con fatica, oltrepassò due ampi massi, issandosi sull’altipiano che ne costituiva la sommità. Prima ancora di poter riprendere fiato, un panorama indescrivibile intrappolò lo stupore negli occhi della fanciulla.

Di fronte a lei, oltre la rupe, si allargava una pianura sconfinata. L’erba, di un verde accecante, scintillava bagnata, colpita dai raggi obliqui del sole che si faceva largo attraverso un ampio squarcio nel cielo candido. Sopra la conca, immense nubi rovesciavano un manto di stille dorate. Era pioggia.

Una miriade di fitte goccioline ricopriva ogni cosa, pioveva talmente tanto che un velo di lucida lacca sembrava essersi posato sulla valle. L’acqua rimbalzava tra le zolle e sulle rocce, creando rigagnoli luminosi che alimentavano centinaia di piccoli torrenti, le nuvole bianche e arzigogolate sembravano dipinte, montagne spumeggianti, belle da togliere il fiato. Freyja era incantata di fronte alla maestosità dello spettacolo, intimorita e profondamente commossa: quella era la terra di Lidia, quello era il Paese della Pioggia. Si voltò verso Luthen che la seguiva a pochi passi ma al posto del giovane scorse Lidia, immobile, i lunghi capelli ondeggianti e la pelle di neve, che fissava la scena con dipinta sul volto la consueta espressione scolpita. Dai suoi occhi, sottili lacrime lucenti scendevano a rigare le guance, una pioggia di luce.

Freyja non vedeva Lidia da così tanto tempo che aveva dimenticato quanto l’amica fosse bella, rimase in silenzio ad osservarla: era come se non avessero compiuto quel lungo viaggio insieme. D’un tratto sentì un tocco lieve sulla sua spalla e, volgendosi di nuovo verso il grandioso panorama da cui aveva con riluttanza distolto lo sguardo, scorse Luthen, in piedi al suo fianco, scrutarla con espressione commossa. Il giovane era in tutto uguale a colui che Freyja aveva imparato a conoscere bene, solo il suo sguardo era lievemente diverso perché i suoi occhi, finora cangianti e spesso verdi come quelli di Lidia, apparivano, definitivamente, neri.

Freyja lanciò un grido, indietreggiando. “Luthen…Lidia, cosa succede?!”

Luthen rimase immobile e Lidia parve destarsi dallo stato di trance in cui la vista di quella terra dimenticata l’aveva bloccata. “Freyja, ci sono molte cose che non ti ho potuto rivelare quando siamo partite dal Picco di Lys, ebbene, anche ora il tempo è tiranno ma è giusto che tu riceva una spiegazione.” Lidia si asciugò le lacrime con un gesto indifferente e proseguì.

“Luthen ed io siamo gemelli. Quando fummo costretti a lasciare Estopia, i saggi che tesserono la trama di incantesimi destinata a proteggerci, decisero di nascondere Luthen dentro di me poiché lui, quale erede legittimo, rappresentava l’entità suprema da proteggere. Non potevamo assolutamente rischiare che venisse individuato dal potere spirituale dei servi di nostro zio. E così, in tutti questi anni è rimasto, sopito, all’interno del mio corpo.

Quando abbiamo compreso che il momento di tornare fosse giunto, poco prima che partissimo, Luthen si è destato, consapevole di tutto ciò che io sentivo e sapevo. Siamo uno parte dell’altra: è stato sempre così, sin da quando eravamo in fasce. Per questo, quando alla prima occasione lui si è manifestato, io mi sono rifugiata dentro di lui. Eravamo comunque sempre in due, anche se…” E Lidia si interruppe osservando corrucciata il fratello. “Ammetto che in alcuni momenti mi sia sentita sopraffatta: cacciata nel buio più profondo della sua mente, lui ha preso il controllo definitivo.”

I due giovani si fissarono per qualche secondo mentre Freyja rimaneva in silenzio, schiacciata da quella rivelazione.

Fu di nuovo Lidia a parlare.

“Ora, Luthen lo sa, abbiamo una missione da compiere e, dal momento che sei voluta arrivare fin qui, è necessario che tu faccia appello al tuo coraggio e accetti di proseguire con noi.”

Si interruppe lanciando un’ultima occhiata al fratello e, superata Freyja, iniziò a scendere la rupe, avanzando verso il diluvio.

Freyja si avvicinò a Luthen e sorrise debolmente. “Non importa se mi avete…mentito finora. Capisco che l’abbiate fatto per non correre rischi inutili, dopotutto ho avuto modo di dimostrare ampiamente la mia sbadataggine, vi avrei certamente fatto scoprire…”. Chissà perché si sentiva molto confusa ma anche stranamente sollevata.

“Freyja, ti prego, da questo momento in avanti fai molta attenzione.” Le parole di Luthen furono secche, quasi un sibilo. Poi posò una mano sulla spalla di Freyja e la spinse avanti forse un po’ più rudemente di quanto la giovane non si sarebbe aspettata. Freyja incespicò sotto quella spinta e, goffamente, seguì il sentiero già imboccato da Lidia, iniziando anche lei la discesa verso il Paese della Pioggia.

Il gigantesco uccello compì un giro completo della radura prima di scendere a posarsi su uno sperone di roccia. Le piume nere del suo corpo risplendevano, lucide della pioggia sottile. Il becco adunco e gli artigli affilati rivelavano la sua natura di predatore ma la sella fissata al suo dorso ne suggeriva un’esistenza da destriero. Nessun cavaliere, tuttavia, sembrava averlo accompagnato in quella ricognizione. L’animale rimase in attesa per alcuni minuti, volgendo attorno gli occhi rapaci, poi, improvvisamente come era giunto, spiccò un balzo e volò via, lasciando cadere un oggetto, più in basso, nella radura. Una figura ammantata uscì rapida dal sottobosco e corse a raccogliere l’oggetto lasciato cadere dal pellegrino, prima di tornare ad eclissarsi tra la vegetazione, gettò una rapida occhiata al palmo della sua mano. Una pietra bianca, liscia come un uovo recava incisa una falce di luna attorno alla quale un serpente avvolgeva le proprie spire. Gli occhi dello sconosciuto brillarono.

“Sono giunti”.

Quando il mondo era ancora giovane, gli dei e gli uomini vivevano in armonia con il creato. Le dimore celesti erano poste sulla cima delle nubi e gli uomini onoravano, con la propria rettitudine e la costruzione di templi, coloro che vegliavano sulla loro esistenza. Il dio Dreki, il drago dalle quattro teste, re degli immortali, aveva diviso il mondo in quattro regni e li aveva affidati ai suoi figli, divinità che controllavano le forze della natura.

I quattro regni, dedicati ai quattro elementi si sviluppavano attorno ad altrettante capitali nei cui sacri templi i sacerdoti, scelti dagli stessi dei, tenevano sotto controllo le forze del cosmo. Così, l’antica Terra dell’Acqua apparteneva al dio Flóð, venerato nel tempio della Pioggia situato nella città di Estopia. La Terra del Vento affidata al dio Loft aveva la sua capitale a Vindur. La Terra della Polvere del dio Maa conservava il suo tempio nella città di Damm ed infine, il dio Eldur era venerato nel sacro tempio del Fuoco, nella città di Brenna. Insieme, i quattro regni formavano il Pianeta Henn.

Alle sue dodici figlie, Dreki aveva affidato le virtù e le arti ed esse dimoravano nella sua casa tra le nuvole, visitando, nel corso delle stagioni, le città affidate agli immortali fratelli.

Fu così che Flóð, il dio dell’Acqua, si invaghì della sorella Jörð, dea della Verità cercando di farne la sua sposa. La leggenda narra che Jörð, innamoratasi a sua volta del sommo sacerdote del tempio dell’Acqua, fuggì dal padre Dreki pregando perché la proteggesse dalle brame del potente fratello. Dreki tuttavia, pur accettando di nasconderla da Flóð, le proibì di unirsi ad un mortale e le vietò di cercare di nuovo il sacerdote di cui era invaghita. Jörð rimase così nella dimora del padre per molte stagioni, senza più visitare il Tempio ad Estopia.

Un giorno però, il corvo Karasu, portatore di menzogne e sciagura, scacciato dal tempio della Pioggia svelò a Flóð che sua sorella lo rifiutava perché innamorata del suo sacerdote. Flóð accecato dall’ira per il tradimento decise di divorare l’insolente mortale che aveva osato innalzare il suo sguardo cupido su una divinità.

Jörð, avvisata dallo stesso Karasu delle intenzioni del fratello, fuggì di nascosto dalla reggia di Dreki per accorrere in difesa dell’amato e, dopo essersi unita a lui durante in matrimonio nello stesso Tempio della Pioggia, di fronte alla statua di Flóð, lo accolse nel suo corpo, nascondendolo agli occhi del fratello. Flóð, infuriato e desideroso di vendetta, scatenò una tremenda tempesta sulla terra di Estopia che era stata testimone del suo amore rifiutato e pretese dal dio Dreki pretendendo una punizione esemplare.

Il Drago dalle quattro teste, adirato con la figlia che gli aveva disobbedito, la scaraventò sulla terra, rendendola mortale e condannandola a reincarnarsi all’infinito in un Pegno: Jörð avrebbe rappresentato per l’eternità il Pegno del Sacrificio, la vittima destinata a ottenere qualsiasi grazia a colui che l’avesse offerta agli dei.

Nel momento stesso in cui Jörð piombò sulla terra venne catturata da un gruppo di uomini, incatenata e bruciata, insieme al suo amante ancora nascosto all’interno del suo ventre, su un altare di marmo per supplicare il dio Flóð di placare la pioggia che aveva scatenato. Dopo che l’acqua ebbe lavato via le ceneri di Jörð, sua madre, la dea Ai fece fiorire sull’altare mille candide fresie che non appassivano mai e che divennero il simbolo della dea della Verità, scacciata dalla dimora eterna e sacrificata alla furia degli uomini. Quando il dio Flóð vide le fresie sbocciate dalle ceneri mortali della sorella si maledisse per averla condannata ad una simile tortura e si ritirò nelle altitudini celesti, abbandonando Estopia e smettendo di ascoltare le preghiere degli uomini.

Ai si recò da Dreki implorandolo di perdonare Jörð ma Dreki rifiutò di riammettere la figlia tra gli immortali. Si pentì tuttavia anche lui di averle inferto una punizione così severa e decretò che l’anima di Jörð reincarnata avrebbe potuto essere sacrificata solo su uno degli altari dei quattro templi sacri presenti nelle quattro capitali della Terra di Henn: solo in quel caso, il sacrificio avrebbe ottenuto a colui che l’avesse perpetrato la grazia desiderata.

 

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Illustrazione originale di Antonella Antonioni per Estopia, diritti riservati.

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