Di un manovale qualsiasi


[Ricordate, o lettori, che il manovale forse parla male, sicuramente scrive male, ma conosce bene e forse meglio di molti]

(Credits: Kevin Phillips da Pixabay)

Lavoravo in quel tempo con la ditta di manovalanza lungo la costa. Succedeva dieci anni fa, negli anni ’50. Costruimmo un impianto di nuova tipologia per la lavorazione di materiali plastici, fra i primi in Italia, finanziato con i fondi degli americani. Non ero che un lavoratore in cerca di buona paga, ma nella mancanza di personale specializzato sul posto gli americani ci avevano dovuto istruire rapidamente, da incolti che eravamo, su quelle strutture portanti e quei macchinari imponenti: dopo quattro anni potevo dire di conoscere molto bene quello che avevo realizzato, ed ogni angolo di quella fabbrica di cemento e lamiera mi portava alla mente infinite mattine di fatica. Ci avevano parlato della grande opportunità che rappresentava per la popolazione locale, per i loro figli: gli stipendi erano buoni e il lavoro non necessitava di specializzazione. A vederla inaugurare dal sindaco un moto d’orgoglio mi aveva scosso, e una quieta gioia mi aveva accompagnato, tornando a casa sulla mia nuova automobile acquistata con i risparmi di quegli anni.

Non ero più tornato sul luogo. Dieci anni dopo tornai per la prima volta a vedere cosa era cambiato e cosa era invece rimasto intatto; era la prima settimana di marzo, mi accompagnava un cielo vuoto di nuvole ma comunque nascosto da una specie di patina sottile, opaco, impenetrabile alla vista, e denso.

Trovandomi su quel molo, cementificato in occasione della costruzione della fabbrica, vidi lo sfacelo che era diventato lo stabilimento in pochi anni. Non vi era nulla di sostanzialmente mutato, ma tutto era come consunto, logoro, già marcescente e decrepito, agli occhi di chi l’aveva visto appena ultimato, splendente e solenne nei suoi bagliori di metallo e plastica. Quella mattina, un sabato, i lavori proseguivano regolarmente. Un tizio piuttosto corpulento mi fissava da quando ero sceso dall’automobile, pensando che volesse dirmi qualcosa mi avvicinai. Era già sporco sulla tuta bianca e lucida, che accentuava come grosse cicatrici di guerra quei segni scuri, e sul volto, il suo cranio era cinto da una grossa maschera, ora sollevata, e il sudore gli imperlava le sopracciglia.

“Che vuole? Che fa qui?”

“Passeggio”

“Non c’è motivo di passeggiare proprio qui…poco più avanti troverà una spiaggia”

Stavo per andarmene, ma il comportamento esplicitamente stizzito del signore costrinse il mio senso di giustizia a trattenermi ancora un poco lì, per lottare ostinatamente al mio diritto alla passeggiata dove più mi era congeniale.

“Io quella fabbrica l’ho costruita, sa? Non dovrebbe tenermi lontano come un estraneo, visto che l’ho tirata su io con le mie mani.”

Lui fa una smorfia, piuttosto indifferente alla notizia.

“Non è importante. Da quando è stata costruita la gestione è cambiata, i macchinari sono cambiati, l’impianto è stato ampliato. Solo quello che casca in rovina sarà opera sua, perciò le assicuro che non ha nulla da vedere qui. Se ne vada.”

(Credits: Peter H da Pixabay)

Feci come pretendeva. Me ne andai interdetto, indeciso su come fosse giusto reagire a quelle parole. Valutavo tra me e me che forse diceva il vero. Quella fabbrica mi era costata tanta fatica, ma non era più lei, eppure pareva così simile…Stessa struttura, ma ecco che il tetto nelle sue linee portanti aveva assunto un colore rossiccio di ruggine. Soffiava il vento e una sottile polvere rossa pareva sollevarsi in aria. All’interno invece, macchine di ultima generazione pompavano energia, con altissime temperature lavoravano i polimeri e li riconducevano alle forme necessarie.

Digressione, i benefici dei materiali plastici: “Le caratteristiche vantaggiose delle materie plastiche rispetto ai materiali metallici e non metallici sono la grande facilità di lavorazione, l’economicità, la colorabilità, l’isolamento acustico, termico, elettrico, meccanico (vibrazioni), la resistenza alla corrosione e l’inerzia chimica, nonché l’idrorepellenza e l’inattaccabilità da parte di muffe, funghi e batteri. Quelle svantaggiose sono l’attaccabilità da parte dei solventi (soprattutto le termoplastiche) e degli acidi (in particolare le termoindurenti) e scarsa resistenza a temperature elevate.

Altra peculiarità è l’elevata leggerezza, che va da un minimo di 0,04 – 1 Kg/dm³ per il polistirolo ad un massimo di 2,2 Kg/dm³ del Politetrafluoruetilene (PTFE), con una resistenza fisica molto eterogenea a seconda del tipo di plastica.

La plastica si ottiene dalla lavorazione del petrolio. Lo smaltimento dei rifiuti plastici, quasi tutti non biodegradabili, avviene di solito per riciclaggio o per stoccaggio in discariche: bruciando materiali plastici negli inceneritori infatti si possono generare diossine (solo per quanto riguarda i polimeri che contengono atomi di cloro nella loro molecola, come ad esempio il PVC), una famiglia di composti tossici.”

 

Proseguii lungo il molo, tra le strisce di percorrenza dei vari veicoli. Guardavo oltre il baratro l’acqua scura adagiarsi ed infrangersi sulla banchina di cemento, le alghe verde vivo danzavano una un ballo lento e suadente. Mi sembrava di perdermi in quel movimento, e che tutto quanto lì attorno, nient’altro bramasse che spegnersi lentamente con il giorno fioco che era appena nato.

D’un tratto ebbi l’improvviso mancamento: sentii le ginocchia cedere e dovetti appoggiarmi a terra con le mani, cadendo carponi. Vedevo improvvisamente fiamme balenare in cielo, la polvere rossa si accumulava in impressionanti bolle, da cui provenivano fiamme e vapori mefitici e roventi. Il cielo era rosso di quei bagliori, e a terra, sotto i miei piedi, il cemento aveva subito l’orribile frantumazione che pareva essere conseguenza di un fortissimo scuotimento della terra. Come la roccia più friabile ad ogni passo quel cemento in apparenza così resistente si frantumava. E sotto non vi era nulla a cui appigliarsi, ma solo un orrendo abisso. Invocai il conforto dei santi e della Madonna, ma quell’avvenimento straordinario non sembrava cessare. Gridai cercando di richiamare all’attenzione di qualcuno quel disastro e sentii finalmente il dolore lancinante che pativa la mia gola, tale che ogni respiro era un raschiare doloroso sulle membrane. Mi portai le mani alla gola e solo allora mi accorsi che anch’esse erano tinte di rosso vivo. Le osservai: erano intatte, se non per le unghie, le mie unghie, che mancavano, e da lì usciva il sangue.

Fino a quel momento avevo osservato trasognato e inerme quegli avvenimenti, chiuso in un vacuo distacco. Ma ora sentivo le viscere, l’intero mio corpo esile tremare violentemente. Piccolo e misero ero in quel cataclisma nato dal nulla.

Mi voltai e vidi la fabbrica, la sua soverchiante presenza che sovrastava persino i rossi bagliori e anzi era proprio dal suo torrione più alto che splendeva una luce più forte e più profonda, che sembrava alimentare le luci minori, e si mostrava violetta per poi sfumare più in basso sino al rosso vivo. Allora  avvertii anche l’assordante rumore che fino a quel momento mi era stato sconosciuto, il cigolio ritmico dei macchinari che lavoravano a pieno regime, làggiù – eppure era così caldo, e il cielo era così scuro e senza stelle. Al mio fianco stava quel signore corpulento di prima: quando mi voltai abbozzò un sorriso. “Va tutto bene”, diceva con spavalderia “la fabbrica procede bene. Con i miglioramenti nel comparto prodotti conservazione alimenti abbiamo avuto un incremento delle vendite del 200%”.

Annuivo, e intanto non credevo ai miei occhi perché anche lui non era più un uomo ma appariva marchingegno di materiali ferrosi – o meglio, era ora chiaramente una parte della fabbrica che lei stessa aveva mandato per darmi spiegazioni. Lei, ovviamente, era la luce.

“Chi è lei?” Domandai come inebetito.

“Lei splende e veglia su di noi”. “E tutto questo? Non è un disastro?” “E’ uno sfacelo, ma è tutto sotto controllo, ce ne occuperemo non appena i conti saranno in ordine”. “I conti?” “Quanti uomini mangiano le macchine al giorno, secondo lei? Le statistiche ci dicono che ancora nei primi del ‘900 esse potevano permettersi solo un uomo al giorno…ma oggi, oggi le cose sono davvero cambiate! Oggi non abbiamo nulla da invidiare a alle americane. Esse divorano, ma i loro cittadini sono carne cattiva. Vede, gli americani…”.

Non lo ascoltavo già più. Il suo discorso verteva ora sullo stile di vita sbagliato che veniva condotto al di là dell’oceano, ora sulla questione della necessità che l’Onu legiferasse sulla questione, poi con una certa facilità si riferiva a questioni riguardanti l’abbandono delle vecchie ideologie. Le macchine volevano il voto, e così via. Non potevo più ascoltarlo e intanto incominciavo a sprofondare, il cemento mi trascinava con sé nella sua caduta, verso dove? Non vi era “sottoterra”, era vuoto, lì sotto. E stavo cadendo, questo lo avvertivo, chiaramente – a gran velocità.

 

Infine mi ritrovai sul molo, dov’ero prima che i bagliori comparissero in cielo. Tutto era come prima, esattamente ogni cosa. Con la mente vuota di ogni considerazione, lo sguardo vuoto anch’esso, volto all’orizzonte e al mare, nel confine con il grigio del cielo; mi incamminai di nuovo verso la macchina. Era un segno, un avvenimento rilevante, una visione, ma non me ne importò nulla. Tornai a casa e pensai ad altro, con ragionevole facilità.

Oggi, quando scrivo, sono passati ancora molti anni da quell’evento; ho una moglie e tre figli, di cui il primo si è trasferito in quell’America che da giovane sembrava essere un nuovo paradiso sceso per noi in terra. Sono anche socio fondatore di un’impresa edile con un vecchio amico, abbiamo qualche dipendente ed un buon fatturato. Una settimana fa o poco più mi trovavo a lavorare per una serie di interventi alle serrande nell’abitazione di un dotto signore – un professore o qualcosa del genere. L’istruito in questione aveva lasciato sulla sua scrivania di lavoro una pagina aperta di libro spesso e piuttosto logorato dagli anni, con la colorazione tipica che viene dalla filigrana sfilacciata. Vi stava scritto in cima alla pagina di destra (cito a memoria):

“Oracoli, auspici e sogni sono cose vane, come vaneggia la mente di una donna in doglie. Se non sono inviati dall’Altissimo in una sua visita non permettere che se ne occupi la tua mente.”

In un solo attimo mi sovvenne il ricordo confuso di quest’episodio avvenuto tanto tempo prima e di cui mai mi ero occupato da allora. Incerto se ad esso fosse da attribuire l’una o l’altra origine decisi di scriverlo in lettere di poco valore, perché almeno qualcuno più acuto di me potesse districare il vero dal falso in questa visione, e fornire una più chiara interpretazione di essa.

 

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