Tornare protagonisti in Europa: ce lo chiede l’Italia


Ci risiamo. Per l’ennesima volta potrebbe non esserci una squadra italiana che corre per interrompere il digiuno di vittorie in Eurolega, che dura ormai da quattordici anni. Il record di Milano, due vittorie e sei sconfitte, non è una condanna, ma di certo un brutto monte da scalare.
È dal 2001 che una formazione del Belpaese non vince la massima competizione continentale: all’epoca fu la Virtus Bologna, allenata da Ettore Messina, ad assicurarsi il prestigioso risultato, pur in una competizione che era… dimezzata. Le divisioni tra Uleb e FIBA Europe, infatti, all’epoca portarono alla creazione di due distinti tornei, che partorirono i trionfi rispettivamente della formazione felsinea e del Maccabi Tel – Aviv di Pini Gershon (anche se l’edizione vinta dagli israeliani rimarrà storica soprattutto per essere stata la prima e finora unica sconfitta di Zelimir Obradovic come allenatore in una finale secca).
Da allora i risultati sono stati deludenti. A cominciare dalle tre finali perse: nel 2002 dalla stessa V nera all’ex PalaMalaguti contro il Panathinaikos (di Obradovic, guarda caso…), nel 2003 al Palau Sant Jordi dalla Benetton Treviso, e nel 2004 dalla Fortitudo sempre in…trasferta, nello scontro alla Yad Eliyahu Arena con il Maccabi Tel – Aviv. Per la cronaca, quel match finì con un impressionante -44 per i colori biancoblù, ma in quest’ultimo caso è forse superfluo ricordare che, anche se si trattava di una Final Four, il fattore campo fu determinante, così come continua a esserlo tuttora ogni volta che si entra nell’impressionante tana degli israeliani i cui tifosi come è noto sono… molto appassionati, per essere eufemistici. Di seguito sono arrivati due terzi posti (2008 e 2011) con la Montepaschi Siena e poi più quasi nulla, se non vogliamo considerare che la stessa Mens Sana nel 2012 e Milano l’anno passato hanno incontrato quelle che sarebbero state le vincitrici della manifestazione nei quarti, e hanno dunque mancato le finali a quattro.
Il punto è: perché le squadre italiane non riescono più a raggiungere i risultati di una volta? Perché anni fa quello europeo per le nostre compagini era un terreno di caccia e ora è diventato una chimera? La risposta più facile, e quella più corretta, è sempre la stessa: come direbbe Maccio Capatonda “Sossoldi”.
Negli anni le società italiane hanno via via perso potere d’acquisto rispetto alla concorrenza negli altri paesi, e con esso è venuta a mancare anche la capacità di attrarre i giocatori in grado di fare la differenza. Ci si è ritorto contro il modello dei grandi investimenti, degli stipendi importanti, delle spese ingenti che peraltro l’Italia aveva contribuito a creare alla fine del secolo scorso, anche se guardando altre discipline sportive viene il sospetto che prima o poi il destino inevitabile sarebbe stato ugualmente questo. Non si sono più trovati i Benetton, Seragnoli, Cazzola, Ferruzzi e Scavolini di turno, tanto per fare qualche nome. L’unico del genere al momento è Armani, che peraltro ci ha messo dieci anni (i primi quattro solo come sponsor) e un bel po’ di soldi prima di alzare il primo trofeo (lo scudetto dall’anno passato).
Il secondo motivo è la logica conseguenza del primo: non solo non ci sono le risorse per attrarre i campioni da fuori, ma a un certo punto vengono meno anche quelle per trattenere quelli che ci creiamo in casa (per fare qualche nome, è decollata in Italia la carriera di Langford, Jaycee Carroll, Ricki Hickman, Bryant Dunston, Markoishvili e tanti altri). E così, mentre gli altri fanno razzia dalle nostre parti, noi ci impegniamo per nuovi talenti che a un certo punto vedremo partire, e il giro ricomincerà all’infinito. Rendendo l’Italia una sorta di lega di sviluppo per le altre realtà continentali. Alcune delle quali, peraltro, sono aiutate dall’essere polisportive e dall’avere (ma questo è un discorso che vale anche per il calcio) l’impianto sportivo di proprietà.
La domanda, avrebbe detto a questo punto Lubrano, sorge spontanea: come si ferma questa giostra, tenuto conto che i grandi flussi di denaro ora come ora sono pura utopia? In due modi principalmente: il primo è la possibilità, per le società di possedere il proprio palazzetto, in modo da poterne gestire in modo autonomo costi e ricavi. Il secondo è quello di investire nei giovani, magari italiani, puntando a creare gruppi solidi, che durino negli anni, mentre ora a fine stagione si rimane con metà del roster, se si è davvero fortunati (altrimenti tocca rifarlo da capo). In questo modo, più che sulla qualità del gruppo si punta sulla sua solidità, sulla conoscenza, altro tassello fondamentale per il successo. E magari si crea qualche prospetto per la nostra Nazionale, che sta venendo fuori ora da una crisi durata un decennio grazie soprattutto alla competenza del ct Pianigiani e del suo staff. Se ora siamo una lega di sviluppo, tanto vale cominciare a esserlo per noi stessi, più che per gli altri.

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