Dentro quegli occhi, il mare


Primo giorno di lezione. Entro titubante nell’atrio della biblioteca. – Eleonora?

Mi volto. È la mia collega, Laura, una ragazza che conosco in quel momento e che ha già insegnato in una classe di immigrati adulti analfabeti durante l’estate. La mia mentore.

Decidiamo insieme cosa fare. Hai idee?

No, assolutamente no. Non ho mai insegnato in una classe se non in compresenza di un insegnante. E soprattutto, non ho mai insegnato italiano a stranieri.

Non ti preoccupare, oggi sarà una lezione di sola conoscenza. Faremo un giro di nomi e illustreremo l’alfabeto. Vedrai che prima che tu te ne accorga la lezione sarà già finita.

Ne dubito fortemente. Due ore di lezione sembrano all’improvviso interminabili. Entriamo in classe. Siamo le prime. Come saranno questi studenti? Non ha mai avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo con degli immigrati. Sì, certo, ho conosciuto delle persone straniere: mia zia è inglese; ho girato un po’ all’estero; il mio gruppo di amici a Bologna è composto più da arabi che da italiani.

Ma non ho mai incontrato un ragazzo arrivato in Italia da Lampedusa. Non ho mai scambiato due parole con un uomo che si è imbarcato a Tripoli su un barcone con una capienza inferiore rispetto al numero di passeggeri a cui sarebbe bastato un nonnulla per rovesciarsi e far morire tutti annegati. Non mi sono neanche mai fatta una precisa idea del ‘problema immigrazione’, assorbendo come una spugna tutto quello che si sente in televisione. O forse non me ne sono mai interessata realmente.

Questi studenti saranno diversi da tutti quelli che potrò mai incontrare nella mia vita. Tensione.

Dopo una decina di minuti (in ritardo, ma scoprirò ben presto che sarà una costante) arrivano i primi, poi gli altri. La classe si riempie in fretta. In tutto 13 persone. Mentre Laura inizia la lezione (come è invidiabile la sua disinvoltura!), io li osservo. Tredici persone che guardano. Ventisei occhi neri come la pece puntati su di noi. Ventiquattro, se togliamo quelli invisibili di un ragazzo, nascosti dietro gli occhiali da sole, neri anch’essi (il colore deve essere una costante..). La prima cosa che noto è che sono tutti ragazzi incredibilmente alti. Mi sento improvvisamente molto piccola. Disagio. Si siedono.

A guardarli meglio mi sembrano dei giganti seduti nei banchetti di un’aula di prima elementare, persone sbagliate nel posto sbagliato. Ma incredibilmente disciplinati. Nessuno parla. Hanno davanti agli occhi un quaderno e una penna e tentano goffamente di seguire la lezione prendendo appunti e trascrivendo alla bell’e meglio tutto quello che Laura riporta alla lavagna. Impugnano male la penna. Le loro lettere sono incerte, traballanti. Scrivono da destra a sinistra e da sinistra verso destra, senza un ordine preciso. Scrivono tutto di seguito, non separano le lettere tra loro. Lettere. Segni. Disegni. Dove sta la differenza? Seguono ogni nostro movimento. Ci sorridono impacciati quando incrociamo il loro sguardo, come a volersi scusare di essere lì. Sono confusa.

Chi sono i carnefici e chi le vittime? Pian piano da ‘occhi che guardano’ tornano ad essere persone. Hanno dei nomi. Hanno un Paese di provenienza che conosco solo per sentito dire: Ghana, Gambia, Senegal, Mali. Non ho la minima idea di che cosa si nasconda dietro questi semplici nomi. Se avessero detto Corinto, Delfi e Delo ne avrei saputo sicuramente di più.

L’Africa si rivela un grande pentolone con tanti ingredienti diversi. Di sicuro non tutti gli africani vanno a caccia di leoni. Hanno venti, trent’anni. Incredibile, siamo quasi coetanei. (Anche i miei amici in un contesto del genere mi sarebbero parsi fuori luogo o è tutta suggestione?). Il disagio pian piano cede il passo alla curiosità. Li guardo, li osservo, li studio. A vent’anni sarei mai migrata in un Paese che non so bene neanche dove sia con la sola speranza di una vita migliore? Avrei rischiato l’avventura? Non ne sono sicura. Inizio ad essere affascinata mentre loro tentano di apprendere l’alfabeto. 26 occhi che guardano una lavagna. Ventisei occhi che pendono dalle labbra di Laura. Qualcosa ancora non torna. Ma cosa?

E improvvisamente lo vedo. Non mi ero ancora accorta di quanto il loro segno distintivo non fosse tanto il loro aspetto fisico, quanto i loro occhi. Occhi neri di una profondità disarmante. Occhi che hanno conosciuto il mondo sulla loro pelle. Occhi capaci di ridere nonostante gli orrori passati. Occhi pieni di dolore e di speranza. Occhi semplici. Mi viene in mente il concetto di ingenuità degli antichi, l’età dell’oro, l’era dei miti. Deformazione professionale, non posso mai farne a meno. Ma c’è altro. I loro occhi sono pieni di immagini, una storia, la loro storia. Percepisco che hanno vissuto una vita che io non vivrò mai. Abbiamo la stessa età ma non potrei mai paragonare i miei vent’anni ai loro vent’anni.

Non siamo due facce della stessa medaglia, siamo vite parallele vissute in mondi paralleli. I loro occhi ardono dal desiderio di raccontarsi ma non possono farlo, sperduti in un mondo che non è il loro. Che non crediamo possibile sia lo stesso nostro. Sembrano uccelli in gabbia. Primo giorno di lezione e già muoio dal desiderio di saperne di più. Sono venuti in Italia per scappare dalle guerre e per cercare fortuna ma non sanno di preciso come sia l’Italia. Per loro è tutta Europa come per noi è tutta Africa? Abitano in un centro d’accoglienza. Alcuni vogliono vivere qui, ad altri basta sopravvivere. Tutti hanno una cieca speranza per il futuro. Tutti sperano che le cose andranno meglio d’ora in poi. Tutti ci guardano con occhi carichi d’aspettativa. È una grande responsabilità il nostro lavoro.

Dobbiamo essere i rappresentanti di quell’italianità di cui loro non sapevano niente fino a ieri ma ne contempo dobbiamo essere dei modelli umani di accoglienza, disponibilità e benevolenza. Ma soprattutto, dobbiamo fornire loro lo strumento per potersi raccontare. E in quel momento capisco il nostro ruolo di insegnanti. Apriremo la gabbia. E sarà bellissimo vederli volare nel cielo.

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