The OA – Una serie (quasi) con i fiocchi.


Creata da Brit Marling e Zal Batmanglij per Netflix.
The OA è il tipico esempio di una serie tv con il potenziale giusto per diventare un capolavoro…che però viene totalmente sprecato dai suoi produttori. La prima stagione, ad ora l’unica, è composta da otto episodi e durante sette intensi episodi ci sono tutti i presupposti per pensare ad un finale glorioso che dia un significato a tutti gli spunti di riflessione che la serie offre. Mano a mano si viene creando l’aspettativa di non assistere solo ad un show di puro intrattenimento, ma di fare una esperienza più profonda, che ci lasci con qualche verità sulla vita, qualche lezione morale non scontata. Aspettativa totalmente ingannata da scelte banali e sbrigative, con cui scema tutta la tensione. Vedremo come. [Attenzione spoilers!] the oaPrairie Johnson (Brit Marling) è al centro della storia, che fin da subito si connota come al limite del credibile. Figlia di un potente uomo russo, dopo essere annegata in un incidente, torna miracolosamente in vita, senza nessuna conseguenza fisica grave se una cecità inspiegabile ed un dono altrettanto inspiegabile per la musica, in particolare per il violino. Per delle vicissitudini politiche che la privano del padre, dopo varie peripezie che le rendono l’infanzia un inferno, viene adottata da una famiglia americana che fin da subito e senza farsi troppi problemi inizia a somministrarle psicofarmaci per darle sollievo da sonni particolarmente irrequieti. Ormai adolescente, decide di andare in cerca del padre sola, cieca e senza dire niente ai genitori, rischio che finisce per metterla in guai molto seri. Infatti, uno scienziato alla ricerca di persone che abbiano avuto esperienze post-mortem, la trova grazie al suo talento musicale e la rende prigioniera nel suo laboratorio insieme ad altre cavie umane.
Da questa entrata in scena del cattivo, le cose diventano più confuse e strane, ancora in senso buono. L’attenzione e il coinvolgimento inevitabilmente aumentano, perché si aggiungono altri elementi soprannaturali senza cadere nel fantascientifico. Viene data alla narrazione un tocco di realismo magico, che induce la “sospensione dell’incredulità” e stimola la curiosità smaniosa di sapere come questo soprannaturale può aggiungere significato al “naturale”, alla realtà. Infatti, Prairie e gli altri prigionieri scoprono di avere il potere di rivelare attraverso le loro esperienze post-mortem dei movimenti che, una volta controllati, possano liberarli. Ma un colpo di scena sconvolge le cose: Prairie riesce a recuperare la vista e a scappare sola. Tornata a casa, s’impegna a raccontare la storia a cinque persone e a insegnare loro i movimenti che libereranno i suoi compagni ancora prigionieri.
È da qui che il racconto della serie inizia, ripercorrendo a ritroso le fantastiche avventure della ragazza protagonista. L’utilissimo stratagemma dell’inizio in medias re, dal momento in cui Prairie ha già riacquistato la vista e ritorna dalla famiglia, catapulta il lettore dentro una storia con un sacco di interrogativi, ammaliandolo con la promessa di uno sviluppo degno delle premesse.  L’impressione è però che gli ideatori abbiano avuto una idea geniale, l’abbiano messa in pratica con successo per gran parte della storia, e giusto al momento di arrivare ad un finale esplosivo, abbiano finito le risorse narrative per chiudere in bellezza.
La conclusione della prima serie, che è stata rinnovata per una seconda stagione, è un open-ending a metà, perché non mostra se effettivamente i prigionieri dello scienziato riescono a liberarsi o no dalle grinfie di quest’ultimo, ma mostra come gli amici di Prairie riescono a praticare i movimenti che gli insegnò. Quello che lascia perplessi e frustati non è la scelta dell’open-ending, come spesso capita, ma il fatto che la stagione si chiuda (per la metà della storia che effettivamente si chiude) con delle risposte banali, fuori luogo, perché prevedono l’entrata in scena di un secondo cattivo all’ultimo minuto, che salta fuori dal nulla e di cui non si sa assolutamente nulla, senza la benchè minima apparente intenzione degli ideatori di approfondirlo come personaggio. Un deus ex-machina ad hoc, con bavaglio e arma da fuoco che vuole fare una strage in un college, che permette risolvere l’intrigo in cinque minuti e lascia gli spettatori a bocca aperta, e decisamente insoddisfatti.
the oaI toni della serie sono quasi spirituali: si parla della vita, di esperienze post-mortem, della capacità di sviluppare dei talenti attraverso dei traumi e della possibilità di vivere la realtà su un altro livello, più umanamente interconnesso e sensibile. Ed è in sé un approccio molto interessante e poco usuale, specialmente trattato così seriamente. L’unica cosa che rimpiangiamo è che, se questo approccio fosse stato appoggiato da un finale degno del resto della narrazione, sicuramente avrebbe reso la serie degna di fare parlare di sé.

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