Brexit: il divorzio del Regno Unito dall’UE


Sono ufficiali i risultati del referendum che si è tenuto il 23 giugno 2016 nel Regno Unito: alla domanda “should Britain leave the EU?” i sudditi della Regina Elisabetta hanno risposto scegliendo Brexit, che significa l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

Con il 51,9% dei voti a favore, infatti, ha prevalso la volontà di chi voleva il recesso dall’Unione (Brexit, appunto) rispetto a quella di quanti erano favorevoli a farne ancora parte (il partito dei “remain”).

I risultati raccontano di una decisione difficile. Mentre in gran parte dell’Inghilterra e del Galles la maggoranza della popolazione ha deciso per l’uscita, in diverse grandi città (Londra, Manchester, Liverpool, Cardiff), in Irlanda del Nord ed in Scozia hanno prevalso i voti per restare: perciò, sull’ondata emotiva del momento, già si diffondono le prime voci sull’indizione di nuovi referendum per la secessione di queste due Regioni.

Dopo l’esito del referendum su Brexit, il processo di integrazione europea subisce un brutto colpo. Come si è arrivati a questo?

L’Unione Europea è un’istituzione nata per creare un mercato comune libero da barriere doganali, ma il progressivo ampliamento delle sue funzioni e del numero dei Paesi che ne fanno parte ha portato allo scoperto alcuni nodi irrisolti:

  • la diversità dei popoli che la compongono per lingua, tradizioni costituzionali, cultura e religione fa sì che manchi quell’omogeneità che è propria, ad esempio, degli Stati Uniti d’America;
  • l’Unione, per come è organizzata, soffre un “deficit democratico”, per cui alcune politiche europee, (come quelle degli aiuti finanziari per salvare gli Stati in difficoltà economica, subordinati a dei drastici tagli della spesa pubblica) sono sostanzialmente decise da organismi tecnici (la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea) e non sono percepite come espressione della volontà popolare;
  • il Parlamento Europeo, unico organo direttamente eletto dai cittadini degli Stati Membri, ha un ruolo secondario rispetto agli organi composti dai Ministri dei Paesi dell’Unione che, a loro volta, (si pensi al caso dell’Italia) non sempre sono espressione diretta del “voto” popolare;
  • alcune tematiche di attualità – come il problema della redistribuzione dei migranti tra i Paesi membri – hanno dimostrato le serie difficoltà dell’Unione nell’affrontare e risolvere questioni di forte impatto sociale.

Ma cosa comporterà, giuridicamente, l’esito del referendum inglese?

Nell’immediato, non cambierà nulla: chi ha già comprato i biglietti per i concerti di Rihanna allo Wembley Stadium del 2 e 3 luglio, o vuole assistere a West Ham – Juventus al Queen Elizabeth Olympic Park (nuovo stadio degli Hammers) il 7 agosto, non deve correre in Questura a fare il passaporto.

La procedura di recesso di uno Stato membro dall’Unione, infatti, è piuttosto complessa.

Con il Trattato di Lisbona (entrato in vigore il primo dicembre 2009) è stato introdotto nel Trattato sull’Unione Europea l’art. 50, dove si prevede che: “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”.

Lo Stato membro che abbia manifestato l’intenzione di recedere dall’Unione deve stipulare con il Consiglio (organismo composto da un Ministro per ciascuno dei Paesi dell’Unione) un vero e proprio accordo internazionale sulle modalità del recesso e sui futuri rapporti istituzionali tra l’ex Paese membro e l’Unione.

Il Consiglio decide a maggioranza qualificata: dovranno votare a favore della bozza di accordo almeno il 55% dei membri di questo organo, in rappresentanza di almeno il 65% della popolazione totale dell’Unione; ragione per cui la decisione non potrà essere presa senza il consenso dei Ministri degli Stati più “popolosi”. Dopo essere stato adottato dal Consiglio, l’accordo dovrà essere approvato dal Parlamento europeo.

Se, invece, un accordo non dovesse essere raggiunto entro due anni, i Trattati a suo tempo sottoscritti cesserebbero comunque di essere applicabili nel Regno Unito per effetto di Brexit.

Le conseguenze economiche del referendum non sono ancora prevedibili con chiarezza: non è chiaro se le conseguenze negative della secessione saranno maggiori per l’Unione Europea o per il Regno Unito.

Prima ancora che Brexit diventasse realtà, invece, gli effetti giuridici dell’uscita di un Paese membro dall’Unione europea erano stati esaminati in un saggio del giurista ed economista Phedon Nicolaides, dal titolo “Withdrawal from the European Union: a typology of effects” (diponibile qui: http://www.maastrichtjournal.eu/pdf_file/ITS/MJ_20_02_0209.pdf), che si concentrava su queste prime conseguenze:

  • l’immediata inapplicabilità di tutte quelle norme del diritto europeo contenute nei Regolamenti UE. I Regolamenti sono una delle principali fonti del diritto europeo, e riguardano svariate materie: per esempio, un Regolamento detta le regole sul riconoscimento delle decisioni di giudici stranieri in materia di divorzio, separazione e responsabilità genitoriali. In questi e numerosi altri casi il Parlamento del Regno Unito dovrà affrettarsi ad adottare nuove leggi, per superare un “vuoto” normativo;
  • il venire meno delle “quattro libertà”: la libera circolazione delle merci, delle persone (e, quindi, il trattato di Schengen e la “cittadinanza dell’Unione”), dei servizi e dei capitali;
  • la rinuncia del Regno Unito a partecipare alle decisioni sulle politiche comuni, ad esempio in materia agricola, dell’occupazione e dell’ambiente: decisioni che hanno comunque delle ricadute globali, con le quali dovrà pur sempre fare i conti.

Nel frattempo, tutti i movimenti politici euroscettici invocano la secessione dei propri Paesi dimenticando i meriti dell’Unione Europea, che ha creato un mercato economico aperto, offrendo nuove possibilità di studio e di lavoro ai suoi abitanti.

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