L’altra Equitalia (errare è umano)


-Pronto?

In principio era solo silenzio, poi un borbottio sommesso ed esitante, infine la persona all’altro capo del filo trovò il coraggio di parlare.

-Andate a fanculo. Io vi ammazzo.

-Scusi, ha sbagliato. Non siamo noi quelli che cerca.

-Stronzi! Siete degli stronzi! E sì che siete voi, Equitalia! Sta scritto qua!

Si sentì un rumore sordo, come di un dito che batteva su un elenco del telefono.

-Sì, ma noi non siamo quella Equitalia.

-Quella? E quante ce ne devono stare, mi scusi?

La voce del misterioso interlocutore suonava vagamente divertita, la sua marcata inflessione meridionale sembrava suggerire un “non mi fate mica fesso così”.

-Noi siamo l’altra Equitalia.

-Non siete quelli delle tasse?

-Noi facciamo attrezzi per cavalli.

-Cavalli?

-Già. Selle, bardature…

L’anonimo scoppiò in una risata fragorosa, non si aspettava quel colpo di scena che però in fondo lo rasserenava e lo faceva sentire meno colpevole per tutto quello che aveva detto pochi istanti prima.

-Mi scusi, compare… potevate scegliervi un’altro nome, però. Ce ne stanno tanti a questo mondo!

E continuando a ridere chiuse la comunicazione.

Peccato che il nome Equitalia l’avessero scelto prima loro, già nel lontano millenovecentoottanta, anno in cui un giovane Claudio Morosini insieme a suo padre, ex fantino di basso livello agonistico e istruttore di equitazione all’ippodromo di Cesena, decisero di fondare Equitalia con l’obiettivo di fornire equipaggiamenti e tutto quanto potesse servire ai loro amati quadrupedi. Da qui il nome della loro azienda, un nome autorevole, che univa sapientemente attaccamento alla patria e appeal internazionale. Un nome perfetto, rassicurante, che avrebbe dovuto – nelle loro intenzioni – evocare affidabilità e fiducia in chiunque lo sentisse. Tutto era filato liscio e gli affari andavano bene fino a quando, nel duemilasette, ecco arrivare Equitalia. L’altra. E le due aziende, i due nomi, pur raffigurando realtà così diverse e inconciliabili iniziarono a venire pericolosamente confusi. E cominciarono le telefonate. Dapprima poche, fin da subito straordinariamente cattive ma nel numero limitato di due, tre all’anno, tanto da venire accolte da Claudio Morosini e suo padre Ermete con un benevolo sorriso di condiscendenza verso l’ingenuo chiamante, non senza tuttavia una certa inquietudine di fondo. Tuttavia con l’inasprirsi della crisi e l’aumento della pressione fiscale le chiamate si infittirono e le voci diventarono più furiose ma anche più rassegnate, come se con quelle contestazioni a raffica, quelle parolacce e insulti e offese gratuite e male indirizzate, quella pioggia di vaffanculo, stronzi, figli di troia, i chiamanti volessero sfogare un irreprimibile odio verso l’esazione fiscale che li strangolava, consci che non sarebbe cambiato nulla, ma che si sarebbero liberati – per un pò – di un peso.

Il padre di Claudio, oramai prossimo alla pensione ma saldo nel volere ugualmente presenziare ogni giorno in azienda e mettere becco in tute le questioni ormai tacitamente demandate al figlio, all’inizio diceva di non preoccuparsi, anzi quelle saltuarie telefonate minatorie quasi lo divertivano.

-Smetteranno da sole, vedrai. Appena capiranno che siamo quelli sbagliati.

Ma non smettevano mai.

Il peggio però doveva ancora venire, perché dalle telefonate si passò alle azioni intimidatorie concrete. Anonimi contribuenti, stanchi ed esasperati di pagare le tasse, fecero recapitare in azienda una busta contenente polvere simile a sabbia. Una mattina Claudio la aprì e vi trovò un biglietto vergato in una grafia stentata, in cui a malapena si leggeva “polvere radioattiva”. Furono avvertite le autorità. Artificeri e polizia scientifica circondarono il perimetro dell’azienda, allontanarono tutti e procedettero ai controlli del caso prima di appurare che si trattava soltanto di sabbia, pura e leggera sabbia di mare.

Fu dopo quell’esperienza per molti versi surreale e fino a pochi anni prima inconcepibile, che il signor Ermete Morosini iniziò ad incupirsi visibilmente e ad assumere un atteggiamento melanconico nel corso delle lunghe giornate di lavoro passate in azienda. Pur non avendo più un ruolo di primo piano nell’organico, né poteri decisionali, aveva pur sempre mantenuto un forte piglio di comando e un atteggiamento vispo e reattivo a fronte di qualsiasi problema che potesse presentarsi. Ora invece, a pochi giorni dall’irruzione degli artificieri, ciondolava con aria afflitta per gli uffici, aveva smesso di salutare gli impiegati e gli addetti alle spedizioni – con cui aveva sempre intrattenuto un rapporto di grande cordialità – e finiva sempre più spesso per chiudersi nel suo piccolo ufficio, sparendo dalla circolazione per tutto il giorno. Un atteggiamento strano che il figlio Claudio giudicò subito molto preoccupante. Esattamente una settimana dopo l’inizio di quegli episodi, superato un periodo di osservazione che si era imposto per vedere se casomai era solo una cosa momentanea, Claudio entrò nell’ufficio in cui il padre restava asserragliato. Il signor Ermete era seduto dietro la scrivania, con la testa chinata tra gli avambracci che teneva lunghi distesi davanti a sé, quasi stesse dormendo.

-Papà?

Invece non dormiva, perché si alzò di scatto e fissò il figlio negli occhi con curiosità, come se non si ricordasse più che fosse così alto, così biondo e così grasso e lo stesse esaminando per la prima volta.

-Ciao, Claudio.

-Papà, che succede? E’ una settimana che sei strano, sembri depresso, disperato… che fai?

-Non è facile, Claudio. Non è facile.

-Cosa, non è facile? Parla, sennò io non capisco, io non riesco a…

-E’ ovvio che tu non riesci. Sei giovane.

Il figlio si avvicinò alla scrivania e si accomodò nella sedia difronte a quella del padre.

-Spiegami, dimmi che succede.

Il padre assunse una posa più composta e sorrise, ma era un sorriso amaro.

-E’ per quelle telefonate. Sono tutta colpa mia.

-Continua.

-Ecco, sono colpa mia, perché nel duemila io ho votato Berlusconi. E lui ha creato Equitalia. L’altra. Mi sono informato, ho letto tutto… è stato lui, quello stronzo! E’ colpa sua! E se non lo votavo...

-Papà, non sei stato il solo a votarlo. Eravamo in tanti! Milioni di italiani! Non penserai che il tuo voto abbia inciso più del mio, o di quello di qualcun’altro!

-Il mio voto ha inciso più del tuo, perché era un voto consapevole. Io ci credevo, in Berlusconi. Mica come te… anche tu l’hai votato, ma non era la stessa cosa. Hai scelto Berlusconi solo perché toglieva l’ICI e avevi comprato casa da poco. Quello non è votare, è farsi abbindolare. Ma tu non hai colpa… io ce l’ho invece. Io potevo evitarlo, e non l’ho fatto.

-Ma eravate in milioni a votarlo! Lo capisci, questo? Come credi che sarebbe salito, se lo avessi votato solo tu? Come?

-Che io abbia votato solo per me, oppure per due, tre, cento, mille persone, non fa differenza. Io l’ho votato, e lui è salito. Lasciami solo, ora. Non vorrei piangere davanti a te.

-Papà, anche se fosse – diciamo solo per assurdo, ok? – anche se fosse che è colpa tua la salita di Berlusconi, se anche fosse vera questa cosa totalmente priva di senso che mi stai dicendo, la legge di Equitalia non l’ha fatta lui! Io ho studiato diritto costituzionale, papà, e ti dico che le leggi le fanno le commissioni, poi vanno in parlamento, e lì le votano ma non l’ha fatta Berlusconi quella legge! E ti dirò di più, probabilmente sarebbe stata fatta comunque e non sarebbe cambiato nulla per noi, per la nostra Equitalia!

-Eppure è cambiato tutto, con quel voto, Claudio. E’ cambiato tutto. La nostra vita quotidiana, la serenità con cui ci dedicavamo al lavoro, le nostre stesse relazioni con gli altri, prima erano diverse, prima che salisse lui. Ora tutto è nuovo, diverso… ora la gente ci telefona incazzata come una bestia per riempirci di insulti, per mandarci a cagare, e tutto questo perché noi siamo quello che siamo, perché noi siamo Equitalia! Noi non siamo più noi, ora siamo loro. Ora siamo loro.

Claudio annuì rassegnato e capì che quella era la fine di Equitalia. La loro Equitalia.

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