
L’impatto ambientale dei fiori recisi, tra il festival di Sanremo e il prossimo San Valentino
Tra Sanremo e San Valentino, febbraio è il mese perfetto per parlare dell’impatto ambientale dei fiori recisi. E, purtroppo, allungare così il nostro elenco di storie di inquinamento quotidiano.
È un mondo crudele, lo so, e lo è per almeno due ragioni: le emissioni sono spesso invisibili e non risparmiano proprio nessun aspetto del “Creato”. Qualunque cosa e qualsiasi essere vivente (leggasi le mucche e il metano che producono) lascia un’impronta sulle risorse e sulla salute del Pianeta.
Per fortuna l’impatto di una rosa è molto diverso da quello di un’automobile e il danno provocato da un mazzo di tulipani è inferiore rispetto a un incendio, ma il punto è un altro. Anzi, due. Tutto è connesso, e lo sono anche i fiori e la deforestazione. Tutto è una scelta, e di alcune più che di altre ognuno ne è padrone e responsabile.
In quanto singoli individui è difficile cambiare un intero sistema, per esempio quello di produzione del calore; al contrario, gesti quotidiani, come comprare una pianta in vaso al posto di un mazzo di fiori recisi, sono decisamente accessibili.
E rivoluzionari, anche se non sembra.
Fiori recisi e puzza di fumo
Leggendo il libro How Bad Are Bananas? The Carbon Footprint of Everything, a un certo punto ci si imbatte in un capitolo sull’impatto ambientale di un mazzo di fiori recisi.

Le rose sono rosse, le viole sono blu, quale inquina di più? (Credits: Wan Chen, Unsplash)
Dopo una serie di dati, che a breve sveleremo, l’autore Mike Berners-Lee si lascia andare a un commento tanto personale quanto condivisibile: “I numeri relativi a un bouquet di fiori importati sono probabilmente i più scioccanti dell’intero libro”. Un libro che contiene anche una misura delle emissioni che causeremmo se bruciassimo tutte le riserve di combustibile fossile del mondo.
Misurare l’impatto ambientale – Carbon e Water Footprint
L’impatto ambientale delle cose si può misurare in termini di carbon footprint e water footprint.
L’impronta del carbonio è l’indicatore che ci dà un’idea della quantità di gas serra generati e quindi immessi nell’aria. Quando si parla di carbonio, generalmente ci si riferisce all’anidride carbonica (CO2), poiché questo gas è ritenuto il principale responsabile del riscaldamento globale. Ma ne esistono altri altrettanto importanti e, per includerli tutti nel conteggio dell’impatto, l’impronta del carbonio si esprime come CO2equivalenti. Per abbreviare, CO2e.
Da dove derivano le emissioni? Da un po’ ovunque. Dall’estrazione e dalla raffinazione delle materie prime, dalle tecnologie di raffreddamento e riscaldamento, dalla produzione e dal trasporto degli oggetti e di macchinari e mezzi necessari per produrre e trasportare gli oggetti, e così via.
L’impronta dell’acqua, invece, è la valutazione dell’impatto idrico che un prodotto (bene o servizio) ha sull’ambiente. Viene definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata durante il processo di produzione ed è misurata sia in termini di consumo effettivo che di inquinamento – quando è sporca, l’acqua da risorsa diventa rifiuto.
La via dei fiori (e il suo inquinamento)
Da cosa dipende dunque l’inquinamento causato da un mazzo di fiori recisi? Da diversi fattori, ovviamente, che possono variare molto in base il luogo in cui i fiori vengono prodotti. Secondo i dati del suddetto libro, infatti, abbiamo emissioni quasi nulle per i fiori raccolti in giardino, 350 grammi di CO2 per una rosa coltivata in Kenya, oltre due chili per una rosa cresciuta in serra nei Paesi Bassi.

Al caldo e al sole: dove nascono le rose? (Credits: Leonardo Wong, Unsplash)
Per produrre il fiore in giardino si suppone che non siano stati fatti grandi sforzi: quello che cresce, cresce; quando cresce, cresce; e se non cresce, amen.
Per l’industria floreale globalizzata la filosofia della stagionalità e della territorialità non può essere valida: il mercato chiede qualsiasi tipologia di fiore in qualsiasi momento dell’anno. E allora inquinare diventa necessario: bisogna importare, o esportare, e creare artificialmente le condizioni adatte.
In Europa, per esempio, la maggior parte delle rose deriva dal Kenya. E l’Olanda è il primo Paese esportatore di tulipani e piante da bulbo sul mercato floristico globale. L’impatto ambientale del trasporto dei fiori recisi deriva dal fatto che, per via della loro delicatezza e rapidità di appassimento, devono essere trattati con sostanze spesso gassose e trasportati in aereo (il mezzo più inquinante di tutti) all’interno di celle frigorifere – che vanno mantenute fredde.
Più fiori recisi, meno foresta pluviale
Per quanto riguarda la produzione in sé, i principali problemi differiscono per Kenya e Paesi Bassi.
In Nord Europa, durante la maggior parte dell’anno, le condizione di luce e temperatura non sono ottimali per la crescita dei fiori; ma non si può mica rinunciare a un commercio che vale miliardi di euro. L’industria floreale olandese si avvale delle coltivazioni in serra, dove le condizioni di calore e illuminazione sono generate e mantenute artificialmente.
Nell’emisfero australe del mondo, invece, le condizioni ambientali naturali non sono un problema: tanta luce e tanto caldo sono l’ideale per la maggior parte dei fiori. In Kenya, così come in molti Paesi dell’America Latina, le coltivazioni a cielo aperto bypassano il problema delle emissioni dirette, ma ne affrontano altri altrettanto gravi. Anche a livello sociale la questione è molto spinosa.
L’impatto ambientale qui deriva dall’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti e dal conseguente consumo di acqua (sia utilizzo che contaminazione). E poi c’è un altro fattore davvero drammatico: la coltivazione di fiori impiega terreni che altrimenti sarebbero dedicati a colture alimentari o dedicate agli allevamenti; la domanda di terra per frutta, verdura e cereali ricade così sulle foreste. E sappiamo bene che la deforestazione per cause agricole è una delle piaghe più tristi dell’Antropocene.
Come ridurre l’impatto ambientale dei fiori recisi?
Massiccio consumo di acqua e suolo e tonnellate di emissioni sono aggravati da un altro fattore: in due giorni o poco più, i fiori recisi diventano rifiuto. A causa di tutta l’energia e le risorse usate per produrli e presto finite nel cestino, questi profumati simboli di bellezza e felicità diventano l’emblema dello spreco.

Slow flowers e piante in vaso: piccole rivoluzioni quotidiane (Credits: Cherry Laithang, Unsplash)
È possibile la risoluzione di questo paradosso? Sì, almeno in parte. Una proposta deriva dal movimento Slow flowers, che promuove la filosofia del fiore etico, cioè locale e stagionale. Un’agricoltura floreale a chilometro zero e al passo con i ritmi stagionali richiede un utilizzo minimo di energia e promuove la coltivazione di organismi adatti e radicati all’interno di un certo ambiente – con notevoli vantaggi anche per i suoi specifici impollinatori.
Un altro modo per ridurre l’impatto ambientale dei fiori recisi, e allo stesso tempo garantire polline e nettare a api, bombi, vespe e farfalle, sono le piante in vaso. Vivendo a lungo, l’energia e le risorse usate per coltivarle sono ottimizzate e trattenute per molto più tempo dei fiori recisi. Inoltre, se come prima si sceglie la tipologia di pianta secondo criteri territoriali e stagionali slow, l’ottimizzazione è massima.
Flower Revolution
I consumatori sono parte della filiera, e in quanto tali possono, se vogliono, avere voce in capitolo. La sostenibilità è un modo di pensare, a prescindere dal campo di applicazione, e quindi applicabile a tutti gli aspetti del nostro vivere. E soprattutto del nostro consumare.
Dalla meta delle nostre vacanze estive, alla cura dei nostri vestiti, dalla facilità con cui compriamo un nuovo telefono ai regali per San Valentino.
Una piccola rivoluzione è possibile ovunque.
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