
Perché non si parla della deforestazione della foresta pluviale del Congo?
La crisi climatica è sulla copertina del Time di novembre e ha la faccia di un’attivista: Vanessa Nakate, 24 anni, portavoce della lotta contro la deforestazione della foresta pluviale del bacino del Congo.
Con 240 milioni di ettari, questo bioma rappresenta il cosiddetto “secondo polmone del mondo” dopo l’Amazzonia, eppure nessuno parla della sua distruzione.
A stupirsene è la stessa Nakate – nata e cresciuta in Uganda, stato limitrofo alla foresta – che infatti dal 2019 organizza scioperi chiedendo di proteggerla. E partecipa alle manifestazioni internazionali per il clima con cartelloni che urlano Congo rainforest matter!
La foresta pluviale del Congo
Questa foresta si trova nell’Africa centrale e occupa gran parte del bacino del Congo, che origina dal fiume omonimo. Si estende sul territorio di sei Paesi: Gabon, Guinea equatoriale, Camerun, Repubblica Centroafricana, Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo.
Si tratta di una delle aree selvagge più importanti rimaste sulla Terra nonché di una delle zone più ricche dal punto di vista della biodiversità. Ospita circa 10mila specie di piante tropicali (molte delle quali endemiche della regione), circa mille specie di uccelli, 700 di pesci e oltre 400 di mammiferi.

Gorilla sul monte Kahuzi, Repubblica Democratica del Congo (Credits: Johnny Chen, Unsplash)
Alcuni grandi mammiferi – come elefanti della foresta, scimpanzé, bonobo e gorilla di pianura e di montagna – sono in via di estinzione a causa soprattutto di bracconaggio e perdita di habitat.
Le cause di deforestazione nel bacino del Congo
La foresta pluviale del Congo ha resistito alla deforestazione più a lungo di altre zone simili, ma nell’ultimo decennio la situazione è peggiorata. Solo nel 2019, per esempio, ne sono stati distrutti circa 500mila ettari. Sul portale Global Forest Watch sono riportati i dati relativi ai singoli Paesi della foresta.
Le cause principali sono da ricercare nello sfruttamento delle risorse di questo territorio. Il bacino del Congo, infatti, è estremamente ricco di legno, petrolio e minerali come diamanti, oro e coltan (usato per fabbricare telefoni cellulari).
Un’ampia e crescente percentuale è in concessione a società di disboscamento e minerarie. Tali industrie portano grandi gruppi di persone nella foresta e con loro il bisogno di cibo e legna da ardere. Inoltre, i relativi progetti infrastrutturali aumentano l’accesso alle aree forestali remote per i cacciatori e, quindi, il contatto con la fauna selvatica.
Proprio alla fine di ottobre, però, le autorità della Repubblica Democratica del Congo hanno annunciato la sospensione delle esportazioni di tronchi e una verifica di tutti i contratti di disboscamento esistenti, nel tentativo di imporre ordine al settore, scarsamente regolamentato. E di fermare un processo rischioso dal punto di vista ambientale.
Al contrario, secondo gli ultimi dati disponibili (risalenti al 2018) la cessione di terra per l’agricoltura continua. Earthsight, organizzazione no-profit che indaga sulle questioni ambientali globali, ha documentato che dal 2013 circa 50mila ettari di foresta sono stati abbattuti per far spazio a piantagioni industriali di palma da olio e gomma.
La foresta del Congo e il cambiamento climatico
La foresta pluviale del Congo riveste una grande importanza per il mantenimento del clima. Essendo stata meno deturpata di altre foreste primarie, almeno fino al 2010, rimane un carbon sink di proporzioni significative. In pratica un “pozzo”, un serbatoio in grado di sequestrare grandi quantità di CO2.

“È come se le grandi foreste tropicali, l’Amazzonia e il bacino del Congo, fossero due ventricoli dello stesso cuore che pompano alternandosi” – Isabella Pratesi, direttrice della conservazione Wwf Italia (Credits: Markus Spiske, Unsplash)
Secondo un articolo di Nature, le foreste pluviali africane in generale sarebbero in grado di immagazzinare annualmente la stessa quantità di carbonio emessa ogni anno dall’uso di combustibili fossili in tutto il continente africano nell’ultimo decennio. E quella del Congo sarebbe uno dei pochi siti al mondo in grado di assorbire più CO2 di quanta ne emetta.
Purtroppo, di numeri certi e precisi non ce ne sono. Confermando la tesi di Vanessa Nakate, in questo luogo difficile e talvolta ostile la ricerca di base è estremamente scarsa. Quindi, nella maggior parte dei casi, si tratta di stime e modelli – incompleti, a causa di mancanza di dati.
In seguito al recente aumento della deforestazione, queste carenze potrebbero risultare ancora più problematiche: non saremo in grado di sapere come la foresta pluviale del Congo (e in generale quella africana) risponderà al cambiamento climatico.
La maggior concentrazione di anidride carbonica nell’aria aumenterà il tasso di fotosintesi? Temperature più alte rallenteranno l’assorbimento del carbonio? Servono misurazioni empiriche per poter fare queste previsioni.
Finanziamenti internazionali per la foresta pluviale del Congo
A metà ottobre Nature ha pubblicato un articolo di commento proprio a questa situazione: “La seconda foresta pluviale più grande del mondo è la chiave per limitare il cambiamento climatico: ha bisogno di studio e protezione urgenti”.
Tra il 2008 e il 2017 il bacino del Congo ha ricevuto solo l’11,5% dei flussi finanziari internazionali per la protezione delle foreste e la gestione sostenibile nelle aree tropicali, rispetto al 55% del sud-est asiatico e al 34% della regione amazzonica.

La foresta del Borneo (Brunei, Indonesia e Malaysia) è un altro importante sito di sequestro del carbonio (Credits: Jeremy Bezanger, Unsplash)
Secondo gli autori dell’articolo, basterebbero 150 milioni di dollari in un decennio per comprendere e proteggere meglio questa foresta – cifra irrisoria, considerando che nel 2019, a livello globale, sono stati investiti 2,2 triliardi di dollari per la ricerca e lo sviluppo. E un’opzione potrebbe essere quella di ottenere fondi dall’Unione europea, dagli Stati Uniti e anche dalle Nazioni unite.
Una volta ottenuti i fondi, propongono di strutturare un programma di ricerca che agisca su più fronti. Formare una comunità scientifica locale, coinvolgere i leader politici africani e non, e soprattutto responsabilizzare le popolazioni del posto – a cui spetta, in ultimo, la gestione del territorio.
Congo rainforest matter!
Investire nella ricerca e nella protezione in questa regione significa molto anche per i Paesi degli altri continenti. Basti pensare al ruolo di certi habitat come serbatoi di malattie zoonotiche: una miglior gestione può contribuire a ridurre il rischio di epidemie – e pandemie.
Infatti, conclude l’articolo del Time,
“ciò che accade nella foresta pluviale del bacino del Congo […] influenza i modelli meteorologici in tutto il mondo. La crisi climatica non rispetta confini geopolitici, blocchi politici o associazioni di categoria regionali. Nessun Paese, non importa dove, è solo un Paese. Quello che succede in Congo non è solo affare dei congolesi o dei loro vicini. Riguarda tutti noi”.
E pare che qualcuno di potente se ne stia rendendo conto: il primo grosso accordo uscito dalla Cop26, la conferenza sul clima tenutasi a Glasgow a inizio novembre, riguarda proprio la distruzione delle foreste.
I 114 Paesi firmatari hanno promesso di stanziare 12 miliardi di dollari per promuovere politiche che fermino la deforestazione, a cui si aggiungono 7 miliardi promessi da società private.
Di questi, una parte dovrebbe essere destinata alla foresta pluviale del bacino del Congo.
Per ora si tratta più di buoni propositi che di impegni vincolanti.
Ma, come mi piace dire sempre, non c’è due senza uno.
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