
Ha senso riparare uno smartphone? I Restarter e l’impatto della tecnologia sull’ambiente
Anche se non lo vediamo – o forse proprio perché non lo vediamo – la tecnologia ha un grande, grandissimo impatto sull’ambiente.
Per produrre uno smartphone di appena 130 grammi servono circa 130 chili di materie prime, tra acqua e minerali. Ripararlo piuttosto che buttarlo via dopo pochi anni può, in qualche modo, contribuire alla salvaguardia del Pianeta?
A credere di sì è una comunità di persone in continua espansione: quella dei Restarter!
Ecco la loro missione e loro storia, che ormai è anche un po’ la mia.
L’impatto ambientale della tecnologia
L’era digitale in cui viviamo e da cui ormai non possiamo prescindere pone due principali sfide alla Terra (su cui pure non possiamo, ancora, prescindere di vivere): quella dei rifiuti e quella della produzione.
E ovviamente una è collegata all’altra.
L’enorme problema dei rifiuti elettronici
I rifiuti elettrici ed elettronici, di cui abbiamo parlato qualche mese fa, sono la categoria di rifiuti solidi destinata a crescere più velocemente di tutte le altre. I motivi sono due.
Il primo dipende perlopiù dai produttori. Alcuni dei dispositivi più comuni hanno intrinsecamente una vita molto breve: sono stati progettati per durare poco – sia nella parte hardware, cioè quella materiale, che nella parte software. Compriamo oggetti che si rompono subito o che non supportano gli aggiornamenti e quindi li buttiamo via.

Come ridurre l’impatto ambientale della tecnologia? Riparare invece di buttare via! (Credits: Alvan Nee, Unsplash)
Il secondo, purtroppo, dipende molto dall’atteggiamento di noi consumatori: abbiamo smesso di concepire la maggior parte degli oggetti tecnologici come dei servizi e abbiamo iniziato a considerarli delle mode. Uno smartphone non è più un mezzo utile a uno scopo; possedere l’ultimo modello disponibile è diventato il fine stesso di questa cosiddetta fashion electronic.
E quindi, anche stavolta, compriamo oggetti che diventano immediatamente “vintage” e quindi li buttiamo via.
Quanto costa all’ambiente produrre uno smartphone?
La produzione dei dispositivi elettrici ed elettronici, tra le varie fasi del loro ciclo di vita, è quella che grava di più sull’ambiente. Ed è tutta una questione di quantità.
Su circa 120 elementi della tavola periodica, gli smartphone, per esempio, possono contenerne fino a 70! La maggior parte di questi viene estratta in Paesi dove la regolamentazione a tutela dell’ambiente e dei lavoratori è carente o del tutto assente.
Molti materiali sono o stanno diventando così rari che per estrarne pochi grammi si producono tonnellate di rifiuti.
Altri ancora sprecano o sporcano grandi quantità di acqua, che quindi non è più disponibile per le popolazioni locali.
E se consideriamo che solo nel 2018 è stato prodotto circa un miliardo e mezzo di smartphone… vengono quasi le vertigini per l’immensità di questi numeri.
Don’t despair, just repair! – Non disperare, ripara!
È proprio per provare ad arginare l’impatto ambientale della tecnologia che, nel 2013, nasce un’associazione che fa dell’arte di riparare (smartphone e non solo) la propria missione.

I dispositivi più verdi sono quelli che già abbiamo in tasca (Credits: Camilla Tuccillo)
The Restart Project muove i primi passi a Londra grazie all’idea e all’azione di Janet Gunter, attivista e antropologa, e Ugo Vallauri, ricercatore specializzato in geografia.
Oltre a una sede fisica dove poter riparare gli oggetti, uno degli obiettivi principali dei fondatori era quello di riuscire a diffondere questa filosofia in tutti il mondo. E infatti negli anni il progetto si è ingrandito al punto da poter trovare membri della comunità dei Restarter, appunto, in tutte le principali città europee e italiane.
Inoltre dal 2017 è stata istituita la Giornata internazionale della riparazione, che quest’anno cade il 16 ottobre (ogni anno si celebra il terzo sabato di ottobre).
Restart Party: una festa per aggiustare il Pianeta
L’attività principale del Restart Project è quella che loro (e ormai tutti) chiamano Restart Party.
Un Restart Party è una vera e propria festa: è un momento in cui persone esperte condividono tecniche e trucchi delle riparazioni con persone meno esperte ma animate dalla voglia di imparare e cimentarsi. Non c’è qualcuno che insegna e qualcuno che impara: insieme si aprono gli oggetti, si smontano, si individua il problema, si cerca di riparare.
E, nella speranza che si riesca, si riusano!
Riparare e riusare uno smartphone, un computer, ma anche un tostapane, un phon, vuol dire produrne uno di meno. Il che a sua volta vuol dire ridurre la richiesta di risorse che puntualmente facciamo al nostro Pianeta. Meno estrazioni, meno emissioni, meno sprechi, meno rifiuti.
Come per ogni problema complesso, anche in questo caso la soluzione non è una sola e non è mai quella definitiva. Riparare e riusare è solamente una delle possibili strade da percorrere per provare a ridurre l’impatto ambientale della tecnologia.
E, di nuovo, come per ogni problema complesso, anche in questo caso l’azione individuale non fa la differenza. Se però sono intere comunità ad agire in questo modo, allora l’impatto dei singoli comincia a diventare significativo.
Trieste Maker Faire contro l’impatto ambientale della tecnologia
Proprio per portare avanti il messaggio e la concretezza di Janet, Ugo e di tutti i Restarter del mondo, l’edizione 2021 della Trieste Maker Faire (che potremmo definire una fiera di artigiani digitali) ha ospitato un Restart Party.

Il nostro Restart Party ha ricevuto un premio speciale da parte della giuria della Maker Faire Trieste (Credits: Camilla Tuccillo)
Quando ho proposto l’idea allo SciFabLab di Trieste, organizzatore della fiera, la prima risposta che ho ricevuto è stato l’entusiasmo.
Quando ho chiesto supporto tecnico ai ragazzi del Mittelab, un’associazione triestina di appassionati di informatica ed elettronica, la prima risposta che ho ricevuto è stato l’entusiasmo.
E quando, il 18 e il 19 settembre, siamo scesi in piazza, l’unica risposta che abbiamo ricevuto dal popolo triestino è stato l’entusiasmo. Dalle bambine che desideravano riparare i loro robot giocattolo, al signor Sergio, di circa ottant’anni, che sperava di ridar vita a una vecchia radio.
Diritto alla riparazione
Avere, noi consumatori, la possibilità concreta di riparare uno smartphone, o qualsiasi altro dispositivo, è solo la punta dell’iceberg per provare a ridurre l’impatto che la tecnologia ha sul nostro Pianeta.
Soprattutto perché gran parte del ghiaccio è costituito dai produttori. Bisogna chiedere loro tante cose. Bisogna quasi pretenderle.
Nel 2019 in Europa è stata lanciata una campagna proprio per chiedere, pretendere e raggiungere il diritto alla riparazione.
Right to Repair vuole tre cose:
- Progettare gli oggetti perché durino e non perché si rompano dopo troppo poco tempo.
- Fornire pezzi di ricambio e manuali d’istruzione a tutti, dai riparatori indipendenti, alle comunità di riparatori, agli utenti – e non solo ai riparatori scelti dai produttori.
- Permettere ai consumatori di scegliere liberamente e consapevolmente al momento dell’acquisto. Il costo di un dispositivo non può essere l’unico criterio di scelta: dovrebbero esserlo anche la riparabilità e la durabilità.
Tre richieste molto chiare: dovremmo, dobbiamo, volerle tutti.
E, aderendo al movimento, possiamo!
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