Il lato oscuro della moda – Qual è il costo ambientale del fast fashion?


Nel 2015, nel Regno Unito, 300mila tonnellate di vestiti sono finite in discarica. Secondo l’ente di beneficenza britannica Wrap (Waste & Resources Action Programme) questo numero è diminuito del 14% rispetto al 2012, quando il peso dei capi buttati ammontava a 350mila tonnellate. Come dire: prima buttavamo un peso equivalente a 58mila elefanti da 6 tonnellate l’uno. Ora siamo passati a 50mila. È un inizio. Ma il costo ambientale del fast fashion è ancora alto.

Come il simbolico crollo del 2013 dell’industria tessile Rana Plaza in Bangladesh ci ricorda, il costo del fast fashion non è solo ambientale ma anche umano. Da quando, alla fine degli anni 90, la moda si è fatta rapida ed economica, noi consumatori abbiamo smesso di pagarne il vero prezzo.

Data la complessità e la delicatezza dell’argomento e anche la pertinenza con la nostra rubrica scientifica, quello di cui parleremo sarà solamente la punta di un iceberg grandissimo – composto da fattori economici, sociali, culturali, ambientali e politici che si intrecciano tra di loro.

Un viaggio dalla nascita alla morte dei nostri vestiti, passando per l’acqua e l’aria che inquinano.

Moda ed economia: numeri oltre la passerella

Secondo il database tedesco Statista, nel 1975 in tutto il mondo sono state prodotte circa 24 milioni di tonnellate di fibre tessili; nel 2019 aveva superato 100 milioni di tonnellate (16 milioni di elefanti). E la giustificazione a questo non è da ricercarsi nella crescita demografica: è aumentata anche la produzione pro capite – da 5,9 a 13 chilogrammi a testa all’anno.

Parallelamente è aumentato anche il consumo: l’Agenzia Europea dell’Ambiente, in un report del 2014, stima che gli acquisti di abbigliamento sono aumentati del 40% dal 1996 al 2012. E anche stavolta la crescita globale deriva da quella pro capite: +34% a testa nello stesso periodo.

Compriamo sempre più indumenti ma qual è il costo ambientale del fast fashion?

Che mi metto oggi? (Credits: Becca McHaffie, Unsplash)

Paradossalmente, invece, la spesa è diminuita: in Italia, sempre secondo lo stesso report, la percentuale di spesa totale familiare dedicata all’abbigliamento è passata da più del 7% a meno del 6%. In Europa, nel 2012, la percentuale media era pari al 4,2% a famiglia.

Quindi: si consuma parecchio di più spendendo un pochino meno.

La regola del fast fashion

Purtroppo non si tratta di un paradosso. Questa è la regola del fast fashion. Non più due stagioni all’anno – primavera/estate e autunno/inverno – ma una a settimana per un totale di 52 mini-stagioni. Avere davanti gli occhi indumenti sempre nuovi, economici e di tendenza ha portato noi consumatori a provare un senso di urgenza nell’acquisto. Compriamo in maniera impulsiva e frequente, accumuliamo e possiamo permetterci il lusso di cambiare outfit ogni giorno.

Così abbiamo alimentato il business del fast fashion: aumentare la produzione, velocizzare la manifattura, abbassare la qualità e accorciare la durata della vita di un indumento. E soprattutto: ridurre il prezzo spostando la fase produttiva in Paesi in cui la manodopera costa poco.

Negli ultimi decenni, in Europa, il costo dell’abbigliamento ha subìto in media un calo del 36% – sfiorando quasi l’80% in Paesi come l’Irlanda e il Regno Unito.

In gara contro il fast fashion: la partenza

Dalla produzione delle materie prime alla manifattura, dall’uso allo smaltimento, ogni fase del ciclo vitale di un capo d’abbigliamento ha un impatto sull’ambiente – che varia in base al tipo di fibra tessile usata, al metodo di produzione e al modo in cui si usa un indumento. Purtroppo molte delle soluzioni pensate negli anni per ridurre il costo ambientale del fast fashion sono diventate nuovi problemi.

Ad esempio, la coltivazione del cotone è associata a un uso significativo di risorse idriche e terrestri e all’applicazione di pesticidi e fertilizzanti. Una delle alternative sono le fibre sintetiche (come poliestere e nylon) che però sono spesso prodotte utilizzando risorse non rinnovabili e sostanze inquinanti.

Siamo sicuramente sulla pista della sostenibilità – per citare una delle tante azioni in atto, nel marzo del 2019 le Nazioni Unite hanno lanciato l’iniziativa UN Alliance for Sustainable Fashion – ma la corsa è lunga. Molti brand cercano di migliorare al “Via”, nella fase di partenza, ma siamo noi consumatori a dover raggiungere lo striscione “Arrivo”.

Il costo ambientale del fast fashion

Le monete con cui il nostro Pianeta paga il conto del fast fashion sono quattro: acqua, gas serra, sostanze dannose e rifiuti.

Ogni fase della vita di un capo d’abbigliamento spende tutte queste monete, ma ciascuna lo fa in maniera differente. Produzione e utilizzo sono, in assoluto, i momenti più costosi.

Acqua e campi di cotone

L’industria della moda utilizza grandi quantità di acqua. La maggior parte è associata alla coltivazione di cotone. Nel 2018 sono state prodotti circa 26 milioni di tonnellate di fibre di cotone. Se pensiamo che per produrre ogni tonnellata è necessaria una piscina olimpionica e mezza di acqua, nel solo 2018 di piscine ne sono state utilizzate 39 milioni.

Costo ambientale del fast fashion: tra le principali fonti di inquinamento ci sono la coltivazione e la lavorazione del cotone

Cotone: più morbido che sostenibile (Credits: Mel Poole, Unsplash)

Il settore tessile è una delle principali cause di perdita di acqua nei Paesi produttori – che in alcuni casi, come Cina e India, sono già sottoposti a stress idrico. Priva le persone di acqua potabile e ne produce di sporca: secondo l’organizzazione Pesticide Network Action le coltivazioni di cotone utilizzano il 6% dei pesticidi globali. Può sembrare poco ma, se consideriamo che solo nel 2018, secondo la Fao, sono state usate oltre 4 milioni di tonnellate di pesticidi in tutti il mondo, il numero che ne deriva è piuttosto grande.

Alternative più pulite esistono, ma non sempre rappresentano un vantaggio. Il cotone biologico certificato, per esempio, viene coltivato senza pesticidi ma richiede maggiori quantità di acqua e la produttività è minore (fino al 30% in meno). Per ora infatti rappresenta una piccola percentuale della produzione globale: tra il 2018 e il 2019 ne sono state prodotte meno di 250mila tonnellate – quindi meno dell’1%.

Più diffuso è il Better Cotton: rappresenta la quota maggiore di cotone sostenibile, cioè coltivato riducendo al minimo indispensabile l’utilizzo di pesticidi e di acqua. Nella stagione 2017/18 ne sono stati prodotte circa cinque milioni di tonnellate. Da qualche anno, alcune organizzazioni hanno dato il via a una classifica, la Sustainable Cotton Ranking, per incentivare la conversione a pratiche più sostenibili: al momento in testa, col punteggio più alto, si trova la Adidas.

Fast fashion e inquinamento dell’aria

L’industria tessile è responsabile del’8-10% delle emissioni di gas serra. Il più alto contributo deriva, anche in questo caso, dalla fase di produzione delle fibre, soprattutto quando si tratta di fibre sintetiche ottenute da derivati del petrolio. Anche durante la manifattura i processi che necessitano di energia sono molti: la filatura per realizzare il filato, la tintura (le reazioni di colorazione avvengono a circa 60 gradi), il lavaggio e l’asciugatura.

Nonostante i diversi step della filiera del fast fashion avvengano in Paesi diversi, il trasporto di fibre, stoffe o indumenti ha giocato finora un ruolo minimo: circa l’1% delle emissioni totali. Ultimamente, però, l’ambiente ha iniziato a pagare un prezzo più caro: per velocizzare le consegne – soprattutto quelle fatte online – per le spedizioni non si utilizzano più le navi ma gli aerei (di gran lunga il mezzo più inquinante).

Dopo produzione e manifattura, al terzo posto ci siamo noi consumatori: ne 2016, nel solo Regno Unito sono state emesse più di otto tonnellate di gas serra durante la fase di utilizzo. Secondo il report 2017 “Valuing Our Clothes” dell’ente Wrap, l’impatto di questa fase è più basso rispetto al 2012: cambiare le nostre abitudini può davvero fare la differenza.

Come? Lavare a temperature più basse; asciugare e stirare di meno.

Moda e sostanze dannose per l’ambiente

Come abbiamo accennato a proposito del cotone, l’agricoltura immette nell’ambiente grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti. Una delle soluzioni proposte negli anni è stata la coltivazione di piante geneticamente modificate – resistenti agli insetti parassiti e agli erbicidi. In entrambi i casi, però, si è trattato di una soluzione a metà: nuovi parassiti hanno iniziato ad attaccare il cotone e l’utilizzo di erbicidi per eliminare le piante infestanti è aumentato.

Lungo la filiera di un capo d’abbigliamento, un’altra fonte di inquinamento da sostanze tossiche è la manifattura. Soprattutto durante i processi umidi (come sbiancamento e tintura) si utilizzano agenti sbiancanti, ammorbidenti, tensioattivi, coloranti, antischiuma e simili. Inoltre, siccome la maggior parte degli indumenti è prodotta fuori dall’Unione europea, è difficile stabilire la quantità esatta di questi agenti.

La tintura è tra i processi più impattanti della filiera della moda

Capi colorati, coloranti e inquinamento (Credits: Bryan Nguyen, Unsplash)

Ma il problema non finisce quando un vestito esce dall’industria: continua nelle nostre case. Il colpevole è la lavatrice, per ben due motivi.

Innanzitutto, la maggior parte dei tensioattivi presenti nei detersivi derivano dal petrolio e per questo non si degradano facilmente in acqua. Esistono tensioattivi di origine naturale (derivanti ad esempio dal cocco o dall’olio d’oliva) ma in questo caso aumenterebbe l’utilizzo di sostanze per coltivare la materia prima. Un’altra mezza soluzione.

Il secondo motivo sono le microplastiche. I vestiti di origine sintetica, durante lavaggio e centrifuga, rilasciano minuscoli pezzetti di fibre che finiscono nel mare – fino al 35% del totale delle microplastiche negli oceani.

Kafa ulaya: dove finiscono i nostri vestiti?

Torniamo da dove siamo partiti: la tragica fine dei nostri indumenti. A causa degli acquisti continui ed economici, la vita media di un capo d’abbigliamento, oggi, è cortissima: circa 3 anni. Dopodiché decidiamo che è arrivata la sua ora (tanto l’abbiamo pagato poco e non è già più di moda!).

Nel peggiore dei casi lo buttiamo: secondo uno studio condotto dall’Institute for Manufacturing dell’Università di Cambridge ogni consumatore inglese manda in discarica, in media, 30 chili di prodotti tessili all’anno. Qui vengono bruciati, e questo significa emissioni di gas serra nell’aria.

Quando va meglio i nostri vestiti saranno indossati da qualcun altro. La maggior parte di quelli che doniamo a organizzazioni no profit viene poi venduta ad acquirenti di Paesi in via di sviluppo – soprattutto africani. In Nigeria, i vestiti di seconda mano sono i “London clothes” (“vestiti di Londra”), mentre in Kenya e Tanzania “kafa ulaya”, ovvero “vestiti dei bianchi morti”.

Per quanto vantaggiosa possa sembrare questa soluzione da un punto di vista umano e umanitario, da quello economico non lo è. Molti Paesi, infatti, stanno mettendo al bando l’importazione di indumenti poiché il mercato dell’usato è saturo e rischia di prendere il posto della produzione locale.

Taglia, cuci e poi…

In tema rifiuti, noi consumatori abbiamo grandi responsabilità ma non siamo gli unici chiamati in causa: anche l’intera filiera del fast fashion lo è. Esistono, in particolare, due tipi di rifiuti pre-acquisto: quelli di produzione e i cosiddetti deadstock, cioè vestiti e accessori mai venduti.

Per quanto riguarda i rifiuti di produzione, la fase di taglio è la più critica: per realizzare un qualsiasi tipo di capo si deve tagliare della stoffa e spesso si commettono degli errori. È vero, questo succedeva anche prima del successo del fast fashion, ma da quando progettazione e manifattura degli abiti avvengono in luoghi geograficamente lontani le cose si sono complicate. È diventato difficile comunicare e quindi evitare errori. Poi bisogna buttare tutto, ricominciare da zero e bruciare il resto.

In relazione ai deadstock, invece, su testate come il New York Times e il Times si possono leggere agghiaccianti storie di colossi della moda (veloce e non) alle prese con abiti e accessori invenduti dal valore di miliardi di dollari. Certo, possono essere bruciati per ricavarne energia, ma non averli prodotti avrebbe evitato lo spreco di numerose e preziose risorse – e ulteriori emissioni di gas serra.

Fast fashion vs economia circolare

Quella che ci sembra una semplicissima sequenza di azioni – scegliere, provare, comprare, scegliere, provare, comprare e poi ancora e ancora – ha conseguenze reali non sono sul nostro guardaroba. Ne pagano il prezzo l’aria, l’acqua, la terra e parecchie persone dall’altra parte del mondo.

È possibile ridurre il costo ambientale del fast fashion? È possibile una moda più sostenibile?

Siamo sulla strada della sostenibilità: quali nostre azioni riducono il costo ambientale del fast fashion?

Consumatori e costo ambientale del fast fashion: cosa è sostenibile? (Credits: Charles Etoroma, Unsplash)

Come abbiamo visto, molte delle soluzioni concepite negli anni si sono rivelate vantaggiose sotto alcuni aspetti, fallaci per altri motivi. Cotone organico? Detersivi di origine naturale? Donare i vestiti? Ogni soluzione ha anche un risvolto negativo e spesso nascosto.

C’è qualcosa, però, che tutti noi possiamo controllare. Una volta acquistato, siamo padroni della vita di quell’indumento. E possiamo deciderne la durata, in vari termini.

Quante volte metto questi jeans prima di lavarli? Ho bisogno di un abito elegante solo per stasera: lo compro o lo affitto? Questa camicia troppo vecchia la butto o posso usarla in altro modo? Questo maglione indossato cinque volte è fuori moda: lo butto o lo regalo a un’amica?

In altre parole, possiamo praticare l’economia circolare. Far sì che un pezzo di stoffa (e tutto quello che si porta dietro) resti nel sistema il più a lungo possibile e pesi il minimo indispensabile sulle spalle di un pianeta già stanco.

“A questo mondo voglio essere più leggera”

Oltre che a valle – nel momento di consumo – le cose dovrebbero cambiare a monte, nella fase di produzione. E sarebbero necessari volontà, impegno e tanti compromessi da parte di tutti i soggetti interessati: industria tessile, fashion business e politica. Complicato.

Ma anche stavolta noi consumatori ci siamo dentro: quanto compriamo? La nostra domanda influenza l’offerta. Stabilire cosa sia necessario e cosa sia superfluo non è facile. Sicuramente non è compito mio e non è neppure il mio scopo qui. Ma mi piace pensare che, anche in questo senso, ognuno di noi possa dare il proprio contributo. Per questo desidero terminare questo articolo (per niente esaustivo, data la complessità del tema) con parole che, più o meno simbolicamente, ci invitano a pesare di meno sulla nostra Terra.

Da una delle ideatrici del progetto Clothing the loopche prevede la realizzazione di opere artistiche con tessuti abbandonati in una fabbrica di abbigliamento dismessa in Cambogia – arriva questo messaggio: “Ero incoraggiata da un’altra verità: che una persona ha il potere di lasciare il pianeta 2500 chili più leggero”. Ovvero la quantità media di vestiti che indossiamo nel corso della nostra vita

E dalla poetessa Alessandra Racca, alias Signora dei calzini, questa intenzione dal titolo Proposito di dieta:

A questo mondo voglio essere più leggera,

già regge troppo peso.

Voglio dimagrirmi il passo,

qualche chilo per ogni piede.

Lo voglio sgravare, poggiare l’essenziale

In gara contro il fast fashion: l’arrivo

Eccoci allo striscione “Arrivo” della nostra gara contro il fast fashion. All’arrivo, ormai è chiaro che comprare meglio non basta: bisogna comprare di meno e ottimizzare l’utilizzo di ciò che abbiamo.

Più che a vincere una gara di corsa, però, il fast fashion ci sfida a uscire da un labirinto. Abbassare la domanda può risolvere il problema ambientale, certo, ma ne apre un altro: quello economico. Immettere meno soldi sul mercato, infatti, vuol dire ridurre la manodopera in alcuni Paesi in via di sviluppo, la cui economia si basa in gran parte sull’industria tessile. In Pakistan, per esempio, metà delle esportazioni deriva proprio da questo settore.

Trovare il punto di equilibrio tra queste esigenze è senza dubbio una delle tante sfide del nostro tempo. Uscire dal labirinto, dunque, è persino più complicato di quello che sembrava.

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