
Agricoltura sostenibile e ogm – Quando la politica ignora la scienza
Agricoltura sostenibile e Ogm: preziosi alleati o nemici giurati? Scienziati da una parte e ambientalisti dall’altra, il mondo si divide in queste due fazioni. È ovviamente la politica a decidere dove far pendere l’ago della bilancia. In molti casi, potremmo aggiungere “purtroppo”.
Infatti, sorda al richiamo della scienza, l’Europa un paio di anni fa ha preso un’ulteriore decisione a sfavore delle biotecnologie in campo agrario. Eppure, in linea con i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Sustainable Development Goals), continua a perseguire l’ideale di un’agricoltura sostenibile.
Una bella contraddizione, dato che la modificazione genetica di alcune colture e la sostenibilità sono due facce della stessa medaglia.
Se, per esempio, esistesse una mela resistente ad alcune malattie – che quindi necessita meno trattamenti con pesticidi – e allo stesso tempo nutriente? Sarebbe una mela sostenibile o illegale?
Europa: senza mezzi per un’agricoltura sostenibile

Europa, mondo vecchio ma non saggio (Credits: Oliver Cole, Unsplash)
Chiamata a deciderne il destino, il 25 luglio 2018 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che gli organismi creati utilizzando le nuove tecnologie di genome-editing devono essere trattati come i più tradizionali organismi geneticamente modificati. La situazione legislativa è molto complessa ma la conseguenza pratica che ci interessa è questa: colture potenzialmente vantaggiose per un’agricoltura più sostenibile non possono essere coltivate.
L’alternativa sarebbe stata considerare questi prodotti alla stregua di quelli ottenuti mediante incroci o mutagenesi indotta, cioè tecniche che pure prevedono l’intervento dell’uomo sul genoma delle piante ma che sono considerate più vicine ai processi che avvengono spontaneamente in natura. Per questo, incroci (breeding, per gli addetti ai lavori) e mutagenesi indotta non sono sotto il torchio della legislazione e della burocrazia e hanno quindi piede libero nel mercato.
Uno dei principali problemi degli ogm, negli anni, è stata l’introduzione di geni estranei nel Dna di un dato organismo: ad esempio, una pianta di melanzana contenente un gene di origine batterica. Lasciando stare l’essere d’accordo o meno sulla pericolosità di questa faccenda, il progresso – sotto forma di genome-editing – pare venire incontro ai nostri capricci: a partire dal 2012 è possibile modificare il Dna di una pianta (ma anche di un animale) senza l’ombra di un batterio.
Tutto merito di Crispr.
Alla fine arriva Crispr
Crispr è un sistema formato, semplificando, da due componenti: un Rna guida e una proteina. L’Rna è una molecola molto simile al Dna e per questo è in grado di riconoscere tratti di Dna a esso complementari: se sull’Rna c’è scritto – nelle lettere del codice genetico – ACGGC, allora saprà trovare sul Dna tutti i segmenti TGCCG. In genetica, questo significa essere complementari.
La proteina in questione, di nome Cas9, è un enzima con un compito molto specifico: tagliare il Dna nel punto esatto in cui lo conduce l’Rna guida. Gli scienziati sono in grado di fare due cose molto preziose: possono sintetizzare con relativa facilità delle molecole di Rna e possono introdurre nelle cellule – con apposite tecniche da laboratorio – sia Rna che proteine.
Detta così è ancora un gran bel pasticcio ma come al soluto l’immaginazione ci aiuta.
Sartoria Crispr-Cas9
Proviamo allora a diventare minuscoli (molto più piccoli di un granello di sabbia, mi raccomando) e a entrare nel nucleo di una cellula, diciamo di una patata. Quello che vediamo sono metri e metri di Dna, non troppo diverso dalla cornetta del telefono.
Insieme a noi ci sono Cas9 e Rna guida; Rna porta un’informazione ben chiara decisa dagli scienziati, ad esempio “Cerca il gene del colore della buccia” (in realtà il colore della buccia è dovuto a molti geni ma questo esempio è molto utile perché facile da visualizzare). A questo punto Rna passa in ricognizione tutto il Dna della patata fino a quando non trova il gene che sta cercando. Attenzione: siccome sono complementari, può riconoscere lui e soltanto lui; infatti, è molto improbabile – seppur non impossibile – che possa sbagliare.

Taglio e cucito con Crispr-Cas9 (Credits: NIH Image Gallery, dominio pubblico)
Una volta trovato, Cas9 fa il lavoro sporco e, proprio come un paio di forbici, fa un taglio in mezzo a quel gene. Le cose che possono succedere ora sono tre.
Uno: la cellula cerca di riparare il taglio e, ricucendo il Dna, commette qualche errore che disattiva il gene per il colore della buccia; come conseguenza, sempre ad esempio, la buccia del tubero perde colore.
Due: oltre a Cas9 e Rna, insieme a noi c’era un terzo componente, un pezzo di Dna – creato sempre dagli scienziati; questo cosiddetto Dna stampo suggerisce alla cellula qualche piccola modifica da apportare nella ricucitura del Dna. Poniamo che il tubero in questione abbia delle macchie sulla buccia – a causa di una mutazione proprio del gene del colore della buccia stessa – e che il nostro Dna stampo porti l’informazione per correggere quell’errore: possiamo risanare la mutazione e eliminare le macchie.
Tre: insieme a noi, Cas9 e Rna, c’è un altro intero gene che porta la nuova informazione “Voglio la buccia viola”; il nuovo gene viene inserito in corrispondenza del taglio e quello che otteniamo è una patata dalla buccia viola.
Cisgenico e transgenico: le differenze
Se la questione degli ogm sembra complicata da un punto di vista scientifico, da un punto di vista linguistico lo è ancora di più. Ogm, come è ben noto, è un acronimo che sta per organismo geneticamente modificato – il che vuol dire tutto e niente. Infatti – come abbiamo già visto per il grano e come scopriremo tra poco per le mele – non esiste una sola pianta, tra quelle che mangiamo, che non sia stata geneticamente modificata dall’uomo.
Potremmo tranquillamente accettare, dunque, che quelli che mangiamo ogni giorno siano piuttosto degli “organismi geneticamente migliorati”, come afferma la biologa e giornalista scientifica Anna Meldolesi.
Una distinzione sensata, invece, è quella tra organismi transgenici e cisgenici. Dei primi sicuramente ne abbiamo sentito parlare: hanno fatto scalpore e fanno paura; dei secondi ovviamente no.
Transgenico
Facile da definire: un organismo transgenico contiene nel suo Dna geni che derivano da un altro organismo a lui completamente estraneo. Un incontro insomma che in natura non potrebbe avvenire facilmente; come dicevamo prima, per esempio, melanzana e batterio.
Cisgenico
Qui il gioco si fa duro: definiamo cisgenico un organismo in cui vengono introdotti geni che provengo da un organismo della stessa specie, o di una specie diversa ma vicina dal punto di vista genetico – due specie, si dice, sessualmente compatibili. Questo rimescolamento di geni potrebbe tranquillamente avvenire in natura; l’uomo e la sua tecnologia non fanno altro che renderlo più preciso, efficiente e funzionale.
Pensiamo, per esempio, al mandarancio e immaginiamo di essere dei breeders. Se vogliamo ottenere un organismo esattamente uguale a un mandarino ma col sapore di arancia, il mandarancio non fa al caso nostro. Il mandarancio, infatti, è il risultato dell’incrocio di un mandarino e un arancio e perciò ha caratteristiche miste. La cisgenesi è la nostra soluzione: permette di direzionale l’incrocio e prestabilire il risultato. Possiamo introdurre nel genoma del mandarino il gene del sapore di arancia (che, come al solito, è più di uno) e conservare le altre caratteristiche del piccolo agrume. Il prodotto risultante è equivalente a quello che si potrebbe ottenere tramite incroci successivi, ma con il vantaggio di inserire solo il gene desiderato, senza portarsi dietro altri geni del donatore.
Tornando a Crispr, nei primi due casi di utilizzo (cioè quando non inseriamo materiale esterno) sicuramente non otterremmo un organismo transgenico: avviene un semplice taglia e cuci. Nel caso in cui usassimo Crispr per ottenere un mandarino al sapore di arancio, quello che inseriamo è il gene di una specie sessualmente compatibile: anche in questo caso non otteniamo un organismo transgenico, bensì cisgenico.
Quella storia che l’Europa abbia annoverano la tecnologia Crispr tra quelle tradizionalmente usate per la transgenesi non comincia a puzzare un po’?
Agricoltura sostenibile e ogm: il caso delle mele ecologiche
Per rendere palese l’ingiustizia che è stata commessa e i vantaggi che sono stati persi, parleremo del caso delle cosiddette mele ecologiche. Queste ultime sono infatti l’esempio perfetto per dimostrare come agricoltura sostenibile e ogm possano essere dei preziosi alleati.
Come dicevamo in apertura, infatti, l’agricoltura sostenibile è più che altro un ideale e gli ogm possono rappresentarne un risvolto pratico. L’agricoltura sostenibile è un insieme di strategie innovative volte a ridurre la dipendenza da pesticidi e fertilizzanti, a frenare la perdita di biodiversità e, allo stesso tempo, a fornire cibo sufficiente, nutriente e conveniente a tutte le popolazioni della Terra.
Le mele ecologiche – che come vedremo sono a tutti gli effetti degli organismi geneticamente modificati – rispondono perfettamente a questi requisiti; ma per capirlo dobbiamo fare un passo indietro e considerare i lati oscuri che si nascondono dietro questo frutto perfetto.
La ticchiolatura del melo
Venturia inaequalis è un fungo che causa una malattia molto diffusa nei meleti: la ticchiolatura del melo. A dispetto del suono divertente del nome, questa malattia è un vero flagello: colpisce la maggior parte degli organi della pianta, causando macchie su foglie, fiori e frutti. Nel casi peggiori i frutti addirittura si spaccano e cadono per terra. Una volta attaccato dal fungo, un albero di mele non è più utile per il mercato.

Tutti giù per terra (Credits: Ana Essentiels, Unsplash)
Come per ogni malattia, anche in questo caso il patogeno va combattuto; in particolare è fondamentale prevenirlo, cioè evitare che il fungo possa raggiungere le mele e mangiarsele. Nel caso di V. inaequalis i trattamenti preventivi, a base di fungicidi, sono circa quindici per ogni albero. Questi trattamenti ovviamente non sono fatti a caso: esistono precisi modelli previsionali che, in base alle condizioni climatiche, indicano un lasso temporale entro cui è più probabile che arrivi il fungo. In quel periodo bisogna iniziare il trattamento.
Questo è quello che avviene nei meleti convenzionali; e in quelli biologici? Il fungo sicuramente non sa distinguere l’uno dall’altro né tanto meno decidere quale mela attaccare e quale no. Di conseguenza, anche nei meleti definiti biologici è necessario prevenire l’insorgenza della malattia.
Forse dispiacerà leggerlo, ma le mele biologiche subiscono trattamenti con “sostanze chimiche” a base di rame e zolfo. Senza molecole dannose per il fungo probabilmente le mele non esisterebbero, perché completamente distrutte da Venturia inaequalis. I prodotti ammessi in agricoltura biologica sono meno efficaci di quelli usati per l’agricoltura integrata (quella convenzionale è in via di estinzione), di conseguenza la produttività è ridotta e il costo del prodotto è più elevato.
L’agricoltura biologica, a ben pensarci, non è poi così tanto coerente con gli ideali dell’agricoltura sostenibile… alcuni ogm possono esserlo molto di più!
La resistenza delle mele
Come ben sappiamo ormai, nel Dna degli organismi possono sorgere delle mutazioni casuali; queste mutazioni, che sostanzialmente sono degli errori, alimentano la diversità. Ebbene, nel corso della storia delle mele, nel genoma di una specie giapponese è spuntata una mutazione che l’ha resa resistente alla ticchiolatura. La specie in questione si chiama Malus floribunda e il gene della resistenza – siglato Vf – è stato individuato a metà degli anni Quaranta da uno studente dell’Università dell’Illinois.
Malus floribunda è una specie di melo selvatico ma, fortunatamente, è sessualmente compatibile con il melo coltivato – appartenente alla specie Malus domestica. Sono infatti almeno settant’anni che vanno avanti programmi di incrocio e selezione, per riuscire a ottenere varietà allo stesso tempo buone per gli standard del mercato e resistenti alla ticchiolatura.
Breeding tradizionale: è sostenibile?
Il breeding tradizionale non è però cosa facile. Come abbiamo visto per il mandarancio, quando si incrociano due specie diverse (ma anche due individui della stessa specie), quello che si ottiene è un organismo figlio che contiene un mix dei geni derivanti dai genitori. È del tutto impossibile ottenere un figlio che abbia tutto il Dna della mela commerciale con in aggiunta solo ed esclusivamente il gene selvatico della resistenza.

Mela: figlia della natura o dell’uomo? (Credits: Camilla Tuccillo)
Gli incroci sono una tecnica di modificazione genetica piuttosto casuale e imprecisa (ma ricordiamo che sono esclusi dalle leggi che regolano gli ogm). Incrociamo il melo commerciale A e il melo resistente B: otteniamo un certo numero di meli figli tutti diversi tra loro. Di questi magari solo due hanno ereditato il gene resistente, gli altri sono tempo e materiale sprecato – insomma, da buttare via.
Dei due resistenti, uno magari ha ereditato il gene aspro e quindi deve essere escluso perché invendibile. L’ultimo superstite resistente e dolce magari ha buccia poco lucida ma ci si può lavorare su: a questo punto si fanno dei re-incroci ripetuti con la madre commerciale per cercare di trasferire i “geni da mercato” ma conservare la resistenza.
Dopo anni e anni di lavori, oggi esistono sul mercato varietà resistenti e con caratteristiche organolettiche adatte ma… in termini di tempo e sprechi, il gioco vale la candela?
La mela dei desideri
Una mela resistente alla ticchiolatura è una mela ecologica: bloccando essa stessa l’arrivo del fungo, necessita solamente di un paio di trattamenti preventivi all’anno. Di fronte allo spietato mercato, però, il fatto che le mele resistenti abbattano il numero dei trattamenti conta poco – rappresentano meno del 3%. I consumatori cercano le solite mele a cui sono particolarmente affezionati. Che fare?
Crearne una sia ecologica che cisgenica: inserire nel genoma di una varietà di mela commerciale solo ed esclusivamente il gene selvatico della resistenza. Si può creare la mela dei desideri che si è cercata per anni, riducendo tempi, costi e sprechi. Nonostante ricerche di questi tipo siano iniziate molto prima del 2012, nessuna tecnologia è mai stata così precisa e specifica come Crispr-Cas9.
Ecco cosa potrebbe succedere se Crispr non fosse stata messa alla gogna dalla politica – per inciso, solo in Europa e in Nuova Zelanda. Gli scienziati potrebbero sintetizzate l’Rna guida per il gene della suscettibilità a V. inaequalis e il gene Vf (a base Dna) per la resistenza. Insieme a Cas9, tutti insieme appassionatamente in cellule embrionali di melo. Rna trova il gene ricercato, Cas9 taglia e Vf viene inserito. Fine.
Una mela così permette di ridurre la dipendenza da pesticidi e fertilizzanti e, allo stesso tempo, fornire cibo nutriente e conveniente. In poche parole la mela ideale per un’agricoltura sostenibile. Ogm? Sì, come tutti i cibi che ogni giorno mangiamo.

Non abbiamo un Planet B (Credits: Guillaume de Germain, Unsplash)
Prese di posizione e nessuna soluzione
La posizione degli scienziati è piuttosto chiara: “Se gli agricoltori biologici avessero la mela cisgenica resistente alla ticchiolatura, dovrebbero essere contenti”, afferma Stefano Tartarini dell’Università di Bologna. Quello che la comunità scientifica chiede da anni, infatti, è di considerare il prodotto piuttosto che la tecnica con cui è stato ottenuto.
A chi dà ascolto allora la politica? Forse a Greenpeace, che dichiara apertamente che “Gli ogm in campo agroalimentare non sono in alcun modo un progresso: con gli ogm non si hanno né vantaggi ambientali né sanitari, al contrario si orienta la ricerca verso la direzione opposta adattando gli organismi viventi alle esigenze della chimica”.
Che gli ogm non abbiano vantaggi ambientali e sanitari non è vero. Ma neppure è sempre falso. In sostanza: dipende appunto dal prodotto. E opporsi ideologicamente a un qualcosa senza valutare oggettivamente caso per caso non è sempre l’atteggiamento migliore.
Come noto, Greenpeace è impegnato in importanti e necessarie battaglie ambientaliste, purtroppo, però, in situazioni come quella degli ogm ha adottato posizioni anti-scientifiche. La realtà non è fatta solo di bianco o nero, bensì di problemi assai complessi, come complesse sono le soluzioni che vanno adottate.
Dopotutto stiamo parlando della sopravvivenza, della salute e talvolta dei vizi di quasi otto miliardi di persone. Infatti, per garantire sicurezza alimentare a tutti, entro il 2050 la produzione di cibo dovrebbe aumentare del 70-100% rispetto al 2013 (secondo dati della Fao); allo stesso tempo, però, uno dei principali obiettivi del Green Deal europeo, presentato a dicembre 2019, è avere un impatto climatico pari a zero entro il 2050.
Dovremmo essere tutti consapevoli che la soluzione nascerà dall’equilibrio e non dalla contrapposizione di queste sfide.
Se non ora, quando?
Comunità scientifica, politica e ambientalisti sono tutti d’accordo su quale sia la soluzione a questa infinita partita di tetris: la sostenibilità. Con buone probabilità, però, “il pezzo del tetris longilineo, quello che lo aspetti una vita ma finalmente quando arriva ti risolve tutto” non esiste. E a quanto pare, l’alternativa più valida trovata finora è stata farsi la guerra. Andare, spesso e volentieri per puro principio, gli uni contro gli altri.
Per ora, purtroppo, quando al mondo ci sono più di 800 milioni di persone denutrite, invece di prendere in considerazione il fatto che una pianta ogm possa essere sostenibile (nel vero significato del termine), si preferisce perdere metà del raccolto e vendere il resto a caro prezzo…
Perché invece non cooperare, perché non mettere insieme tutti i mezzi possibili per farcela? Perché non considerare, tutti insieme, prodotto per prodotto e stabilire quale possa fare il bene del mondo e non solo del nostro frigo?
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