È nato prima il lievito o la pilsner? Storia degli ingredienti della birra
Nel 1516 il duca Guglielmo IV di Baviera emanò il Reinheitsgebot o editto di purezza, in cui elencava senza ombra di dubbio gli ingredienti della birra. Si leggeva che “da questo momento in poi e dovunque, niente deve essere usato o addizionato per produrre birra che non sia orzo, luppolo e acqua. Chiunque intenzionalmente disobbedisca sarà severamente punito dalla corte che ha giurisprudenza su di lui e gli verranno confiscati i barili di birra”.

(Foto: Unsplash)
Secondo voi, c’è tutto?
Guglielmo, un duca senza (s)malto
Gli esperti conoscitori della legge staranno pensando al frumento: in realtà quel furbone di Guglielmo lo aveva fatto apposta! Emanò il decreto, che doveva essere temporaneo, per impedire l’impiego proprio del frumento il cui raccolto, quell’anno, era stato un disastro. Mi direte anche che, per essere annoverati tra gli ingredienti della birra, l’orzo e il frumento non devono essere usati così come Mamma natura li ha fatti: e avete ragione.

Chicchi d’orzo (Foto: Pexels)
Il mosto va preparato con “malto di orzo o di frumento”. Il malto non è altro che il chicco del cereale in questione dopo la germinazione. Una volta raccolti, i chicchi vengono messi a macerare in acqua: l’idratazione fa sì che spunti loro una piccola radice. A questo punto la germinazione viene bloccata con il calore e il malto viene essiccato. Ma a cosa serve questa piccola radice? Non serve a niente, ovviamente, ma durante la germinazione avviene un importante processo: gli zuccheri complessi presenti nel seme (ovvero l’amido) vengono trasformati in zuccheri più semplici che possono essere fermentati in alcol e anidride carbonica. In poche parole, quel gas che genera le bolle della birra.
Agli ingredienti della birra ne manca sempre uno
A parte queste sottigliezze che (converrete con me) possiamo perdonare al buon Guglielmo, stando alle conoscenze dell’epoca l’editto elencava tutti gli ingredienti della birra. Agli inizi del 1500, infatti, nessuno aveva idea di cosa fosse un lievito, al massimo un “fermento che si aggiunge alla bevanda per renderla più efficace”. Ammesso e non concesso che “efficace” fosse una parola in codice per dire invece ”alcolica”, possiamo dire che fino ad allora ci avevano visto lungo…
Migliaia di anni fa, i nostri avi – seppur ignari di tutto – producevano talmente tanta birra da pagarci i salari! Era così apprezzata da essere considerata una bevanda sacra. I Sumeri prima e gli Egiziani poi preparavano dei semplici impasti a base di acqua e cereali pestati. Questo serviva a conservare più a lungo i cereali stessi e ottenere una bevanda meno pericolosa dell’acqua di allora. Un’offerta sull’altare trasformava l’impasto in una bevanda inebriante. A quanto pare i Galli furono i primi a intuire che, forse forse, gli dei potevano essere battuti sul tempo: aggiungere la schiuma che si formava sulla birra alla preparazione della birra stessa velocizzava il processo.
Wanted!
Il perché sarebbe stato chiaro parecchi secoli dopo. Solo nel 1789, il chimico francese Antoine Lavoisier riuscì a dimostrare che è lo zucchero presente nel mosto a venir trasformato in alcol e anidride carbonica. Al tempo pareva impensabile attribuire una tale attività a un essere vivente.
”Figuriamoci – avrebbero detto – la fermentazione è un puro fenomeno chimico!”. L’alcol viene prodotto da un “ingrediente inanimato!”.
Per fortuna, qualche curioso aveva intuito che “quella sostanza particolare che si depone sulla birra, che porta il nome di fermento o di lievito” è composta da qualcosa in movimento: ”un ammasso di piccoli corpi globulosi e non già una sostanza inerte puramente chimica”.
A ordinare le idee arriva Louis Pasteur nel 1876, che finalmente associa lievito e fermentazione: gli zuccheri del malto vengono trasformati in alcol e anidride carbonica proprio dal lievito, un essere vivente. Adesso tutti vogliono vederlo! Che faccia può mai avere il creatore della birra? La corsa al lievito viene vinta dal chimico Emil Christian Hensen nel 1883, nei laboratori di un famoso birrificio danese. Riesce a isolare dalla birra cellule di lievito senza portarsi dietro altri scarti di lavorazione (coltura pura, per i microbiologi alla lettura); e gli dà un nome che è un chiaro messaggio di paternità: Saccharomyces carlsbergensis. Cosa scopre? Che è un essere tanto potente quanto minuscolo: infatti è composto da una sola cellula.
Alti e bassi della birra
Piccolo sì, ma instancabile! Pensate a quanti litri di birra sono stati prodotti dalla notte dei tempi! Per fortuna non è mai stato solo: all’opera c’è anche un suo parente, Saccharomyces cerevisiae, che però è stato identificato solo a metà del 1900 sulla superficie di fichi californiani (il frutto si intende!). I cugini Saccharomyces sono simili nell’aspetto, ma molto diversi quando si comportano da ingredienti della birra.

Tipico esemplare di fico californiano (Foto: Unsplash)
A Carlsbergensis piace il freddo: fermenta gli zuccheri a circa 10-12°C e produce una birra che viene detta lager o a bassa fermentazione. A Cerevisiae piace il caldo: fermenta gli zuccheri a circa 20-25°C e produce una birra che viene detta ale o ad alta fermentazione. Le birre più antiche sono di tipo ale e non di rado venivano buttate perché inacidivano subito. Le alte temperature non riescono a far fuori batteri e lieviti selvatici che, fermentando anche loro, producono sostanze acide.
Per di più: il lievito ormai esausto e i residui di luppolo e malto nelle birre a bassa fermentazione vanno verso il basso e si depositano sul fondo del barile; nelle birre ad alta fermentazione invece vanno verso l’alto e galleggiano sul liquido. Logico, no?
Attenti al luppolo!
Tra gli ingredienti della birra, il vero jolly è il luppolo – Humulus lupulus, se qualcuno vuole sciogliersi la lingua.

Una pianta di luppolo (Foto: Pixabay)
Anzi, se mi permettete lo chiamerei “la luppola”: per la produzione della birra vengono infatti usate le piante femmina. In particolare i fiori: contengono delle sostanze amare che compensano il sapore dolce del malto e delle sostanze che donano alla birra un aroma floreale e fruttato (con fare sopraffino). All’appello non manca l’aroma “faunistico”: tra i vari composti ce n’è uno, l’iso-umulone, che quando viene colpito dalla luce viene trasformato nel 3-metile-2-butene-1-tiolo, da tutti conosciuto come odore di puzzola. Per evitare che ciò avvenga basta una protezione solare: bottiglie di vetro scuro! Se stasera vi servono la birra in una bottiglia di vetro chiaro non ve la date a gambe: ci ha già pensato la chimica. La struttura dell’iso-umulone della vostra birra è stata leggermente modificata in modo da essere stabile anche in presenza di luce.
Alla fine della storia devo confessarvi un segreto: io la birra non l’ho mai bevuta! O meglio, non quella di Guglielmo. Grazie alla legge attuale si possono utilizzare anche “materie prime amidacee e zuccherine” e noi poveri celiaci possiamo ripiegare sulla birra di castagne che, si dà il caso, sono ricche di amido. Forse anche stavolta Guglielmo l’aveva fatto apposta: l’aveva assaggiata, non gli era piaciuta (come dargli torto!) e aveva bandito per sempre le castagne dal suo editto.
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