Lo spauracchio dell’intimità – perché è così difficile essere intimi?
Nella vita ho sperimentato diversi tipi di rapporto, tutti, a loro modo, complessi.
È indubbio, infatti, che vi sia una complessità di fondo nel primo approccio con l’altra persona e, dunque, nello sperimentare l’inizio di un rapporto.
Ciascuno, infatti, è portatore di un proprio interesse specifico che, talvolta, coincide e, qualche altra volta, contrasta con quello dell’altro.
La dinamica dell’incontro/scontro degli interessi non è solo materia socio-psicologica ma, anche, terreno fertile del diritto civile il cui scopo, appunto, è quello di regolare ed, infine, ridurre tale contrasto.
Compito funzionale del diritto civile è valorizzare l’autonomia fra i privati, fornendo ad essi gli strumenti per ricercare l’equilibrio fra interessi contrapposti.
Il diritto civile – almeno quello successivo all’entrata in vigore della Costituzione – ad esempio, compie quest’operazione accettando la regola che alcuni contraenti si collocano in una posizione iniziale di sostanziale subordinazione o inferiorità rispetto all’altro. Ecco, allora, che considerando uno squilibrio economico e sociale di partenza, il diritto risolve il conflitto tentando una mediazione fra gli interessi in causa che, il più delle volte, si risolve sacrificando l’interesse del contraente più forte a vantaggio di quello del più debole.
Un esempio molto banale ed efficace è quello del proprietario di casa, contraente più forte rispetto all’inquilino, che nel contratto di locazione abitativa è impossibilitato a recedere dal contratto prima della scadenza (mentre, all’opposto, l’inquilino, se il contratto lo prevede, o se ricorrono gravi motivi, è libero di andarsene quando vuole purché fornisca al proprietario un congruo termine di preavviso).
Nei rapporti umani, come anche nei rapporti giuridici, la “fine” è un’eventualità chiaramente probabile.
In queste situazione, però, come è ovvio, non esiste un meccanismo preventivato di risoluzione del conflitto.
A questo punto, diventa importante domandarsi dell’inizio del rapporto, piuttosto che del suo epilogo.
Infatti, mi sono accorto che, il più delle volte, è proprio l’inizio a determinare la fine repentina di una relazione fra due persone che s’incontrano per la prima volta.
Il motivo, in fondo, è piuttosto semplice: all’inizio delle relazioni ognuno di noi si trascura e si affida all’impulso.
Nella società di oggi, le persone coinvolte in una relazione appena cominciata si trovano improvvisamente catapultate nelle realtà e nei segreti reciproci (anche più intimi) in un tempo rapidissimo.
Un esempio abbastanza calzante riguarda la prima condivisione della camera da letto.
Per dare una forma definitiva al luogo più intimo e privato di tutti, ciascuno di noi impiega un tempo lunghissimo ed una cura particolare (vi appende i quadri e le fotografie che preferisce, sceglie con accuratezza il colore delle pareti).
Vi sono luoghi, infatti, che sono il naturale prolungamento della nostra psiche, il riflesso di ciò che in realtà siamo nei periodi di tempo in cui ci impegniamo con più forza a formare noi stessi. Ed è indubbio che questi momenti di formazione della persona si svolgano, il più delle volte, quando siamo da soli, ovvero, quando siamo in intimità.
Tuttavia, sono sicuro che anche a voi è capitato di frequente di conoscere una persona da poche settimane e di farla entrare in camera vostra con una facilità disarmante, senza accorgervi che la vostra predisposizione all’apertura si riflette inconsciamente sull’altro e su voi stessi.
Tali conseguenze (che potremo anche chiamare riflessi di interessi interiori) essendo territorio, appunto, dell’inconscio, sono perlopiù imprevedibili e finiscono spesso per manifestarsi solo al termine di un rapporto.
Non è errato infatti affermare, che il terreno più scivoloso nei rapporti umani, al giorno d’oggi, è quello della costruzione di un’autentica intimità fra due persone.
L’altro giorno ne discutevo con un amico, il quale, giustamente, osservava che in questo complicato meccanismo, due persone si confrontano con quegli interessi contrapposti ed antagonisti che sono l’ingrediente fondamentale per la creazione della complicità.
Invero è ciò che ci pone in confronto ed, in un certo senso, ci distingue l’uno dall’altro a provocare una connessione fra gli individui.
Procedere nell’illusione che entrambi necessitiamo di soddisfare i medesimi bisogni (il sesso, ad esempio) provoca un grave cortocircuito nel momento in cui ci accorgiamo, appunto, che i bisogni sono differenti.
Scendendo un po’ di più nello specifico, guardiamo, ad esempio, alla comunicazione: è un fatto pacifico che due individui, quando si incontrano per la prima volta, abbiano bisogno di comunicare all’altro i propri interessi, per stabilire se esista un terreno comune.
Ecco che assistiamo, infatti, al proliferare di applicazioni d’incontri in cui, a nostro apparente arbitrio (dico apparente, perché è chiaro che non siamo realmente noi a deciderlo, ma semplicemente scegliamo fra una moltitudine di opzioni già stabilite), inseriamo in un’apposita scheda le caratteristiche che ci contraddistinguono e che cerchiamo nell’altra persona. Ci piacciono le persone poco pelose, ad esempio? Ebbene, attraverso dei filtri, scartiamo coloro che, per loro natura, possiedono una predisposizione alla villosità, precludendoci in partenza la possibilità, nel corso del tempo, di mutare i nostri gusti estetici.
Quando incontriamo la persona i cui interessi sembrano corrispondere a quelli della nostra persona, compiamo il grave errore di mettere da parte, in partenza, ciò che potrebbe, invece, dividerci. È per questo che, nella maggior parte dei casi, senza quasi rendercene conto, ci scopriamo a deluderci velocemente dell’altra persona o, viceversa, è l’altra persona a deludersi in fretta di noi. E come potrebbe essere diversamente se nell’altro riusciamo a vedere solo ciò che, in astratto, ci aggrada di più di noi stessi?
In questo modo le relazioni ci confondono, perché ci illudono di aver raggiunto l’intimità, salvo poi accorgerci che, in realtà, nessuno dei protagonisti ha fatto progressi al riguardo.
Veniamo di nuovo al sesso: così come è facile incorrere nell’errore di aprire troppo velocemente la porta della nostra camera da letto, è facile che, una volta aperta, ci si ritrovi nudi per consumare un rapporto.
L’istinto ci porta a confidare di noi stessi e dell’altra persona proprio nel momento in cui quest’ultima è stata messa preventivamente a conoscenza delle nostre preferenze. Così ci ritroviamo (e a me è capitato diverse volte), a compiere l’atto più intimo, senza alcuna intimità, e non ci accorgiamo che gli altri, al netto delle proprie preferenze sessuali, possiedono un vissuto diverso dal nostro in materia.
Ci sono persone che si sono trovate più volte nella condizione di riuscire con disinvoltura a fare sesso con qualcuno che non gli interessava particolarmente ed altre, invece, che non riescono a farsi piacere il sesso senza un sentimento importante alle spalle.
Al momento dell’atto, però, non c’è stato il tempo sufficiente per conoscere questo background ed ecco che, allora, vengono a galla i problemi. L’ansia ci prende e non riusciamo a contenerla e così, come siamo entrati velocemente in contatto, velocemente ci facciamo da parte.
Tutto d’un tratto, allora, scopriamo di essere stati frettolosi ma, intanto, ci siamo esposti al punto da condizionarci la vita una volta di più.
Visto che si è portato l’esempio del sesso e quello della comunicazione, credo sia giusto soffermarsi ancora su quest’ultimo aspetto.
Quando inizia una relazione, la persona che un attimo prima non conoscevamo si trova, poco dopo il primo incontro, investita da una gigantesca montagna di informazioni personali. Ci chiede e le chiediamo come stiamo, cosa stiamo facendo, qual è il nostro programma della giornata, come passeremo le vacanze, come è il rapporto con i nostri genitori o con i nostri amici. E noi le forniamo queste notizie senza diffidenza, perché inconsciamente temiamo che il nostro silenzio provochi un distacco, un distacco che temiamo più della stessa vicinanza.
Riflettiamoci un secondo: con chi fra le persone più intime della nostra vita (pensiamo a un genitore, a un fratello o una sorella, a un caro amico) avvertiamo la necessità di sentirci o di comunicare quattro/cinque volte al giorno? Abbiamo davvero bisogno, nell’arco della nostra giornata, di far sapere ripetutamente alle persone più care, come stiamo e cosa stiamo facendo?
Eppure, credo non sia sbagliato che le persone si sentano di comunicare con l’altro o di farlo entrare nel proprio letto quando più le aggrada.
Come scegliere, allora, fra la necessità irrazionale di sapere tutto dell’altro (che sembra, peraltro, un desiderio di controllo) e l’abitudine razionale a intrattenere contatti normalmente frequenti con le altre persone a cui vogliamo bene?
In un mondo in cui, però, diversamente da ciò che accade nel mondo del diritto, tutti godiamo di una maggiore libertà d’iniziativa e parità nell’intrecciare rapporti a seconda di quanto più ci aggrada (che siano rapporti bilaterali o trilaterali, omosessuali od eterosessuali), ci ritroviamo, ironicamente, a desiderare qualcuno che ci fornisca regole di comportamento appropriate.
Ecco perché consultiamo libri, andiamo da psicologi, leggiamo rubriche di giornale, chiediamo all’amico più saggio, in attesa di estrapolare delle corrette forme di comportamento che ci garantiscano un’esistenza fatta di rapporti reali e soddisfacenti.
Quando, tuttavia, ci accorgiamo che in nessun modo e nessuno potrà fornirci la giusta chiave di lettura, per noi è una profonda delusione.
L’intento del mio amico, l’altra sera, in effetti, non credo fosse quello di fornirmi una risposta, bensì piuttosto di offrirmi uno spunto per riflettere su ciò che, in effetti, non riesco ancora a comprendere.
Se è giusto e sacrosanto che ciascuno, liberamente e sulla base delle proprie preferenze, compia ciò che più lo fa sentire a suo agio, mi chiedo perché ci risulti così complicato servirci adeguatamente di questa libertà.
Come si può, allora, prevenire una deriva del rapporto non essendoci una norma di comportamento, in astratto, giusta ed applicabile al nostro caso specifico?
Credo che la risposta consista in questo: darsi da sé delle regole di comportamento, comprendere che certi gesti che compiamo hanno conseguenze collaterali, a prescindere da ciò che comunichiamo agli altri e a noi stessi con il linguaggio delle parole.
Insomma, anche nel terreno dei rapporti fra le persone, come nel diritto civile, considerare l’autonomia (etimologicamente: “darsi da sé delle regole”) più che una base di partenza comune, come un obbiettivo da raggiungere nel concreto con l’altra persona.
In questo senso, per imparare a darci delle regole, dobbiamo imparare, prima di tutto, ad osservare con maggiore attenzione i segnali che ci provengono dal linguaggio del corpo altrui.
Il motivo è semplice: è solo apprendendo i comportamenti dell’altra persona che ci accorgiamo di essere diventati intimi.
Per fare questo, però, dobbiamo compiere un’operazione diametralmente opposta a quella del diritto, che tende a privilegiare, in maggioranza, il valore delle dichiarazioni espresse rispetto a quello delle espressioni non verbali.
È chiaro che per comprendere questa particolare forma di linguaggio abbiamo bisogno di un tempo nettamente superiore a quello che ci occorre per interpretare una proposizione linguistica.
Forse per questa ragione, la scelta più condivisibile ed accettabile mi sembra essere quella di incontrarsi e trascorrere del tempo assieme, dimenticandosi di dare troppa importanza alle parole (soprattutto quelle scritte).
Alla fine di questa filippica, vi suggerisco, per chi non li avessi visti, questi due celebri dialoghi cinematografici tratti, il primo, da “Will Hunting” di Gus Van Sant ed il secondo da“This Must be the place” di Paolo Sorrentino.
https://www.youtube.com/watch?v=ykHlilb-6hA
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