Jair, la vita è storta come le dita dei tuoi piedi


1-22-my-occurrence-elliot-reid-3093593-720-536La mattina ho appuntamento con Arthur alle 9, al primo piano dell’ospedale. Arthur è un amico brasiliano che ho incontrato il primo giorno, mentre fissavo concentrata le bocche dei miei compagni che parlavano portoghese. Appena ha saputo da dove venivo si è illuminato: “Ah Sciada. Italiana! Io parlo un poco di italiano!”. Da quel momento è diventato il mio Virgilio, guida spassionata tra le corsie dell’ospedale e tra le strade di Belo Horizonte. Siamo saliti in fretta al settimo piano a visitare Sau Jair, il signor Jair. Un uomo con un corpo segnato da tante sofferenze e gli occhi saldi di chi, con queste sofferenze, ormai ci convive senza paura.

Io di paura ne ho avuta un bel po’ il primo giorno che l’ho visitato. Ogni volta che prendo in mano il fonendoscopio,  la mia ansia da prestazione entra nella stanza, senza bussare. Jair deve aver intravisto quest’ansia e ha iniziato a seguirmi con gli occhi senza parlarmi. Nel misurargli la pressione ho fallito miseramente e ho dato la colpa al polso troppo debole. Quando Jair ha capito che parlavo italiano e che a lui avrei soltanto sorriso, ha scosso la testa e si è scoperto la pancia, con un gesto rassegnato. Mi guardava mentre mi mordevo il labbro e cercavo di sentire un suono dal suo petto, la famosa stenosi mitralica studiata sui libri. E mentre gli mimavo di respirare profondamente ed espirare, lui si sforzava di non tossire e bestemmiare in portoghese. Ho perso qualsiasi credibilità appena ho messo la mano sul suo aneurisma e l’ho ritirata con gli occhi spalancati. Pulsava fortissimo. A quel punto ha guardato Arthur, per sapere se mi avesse trovata per strada insieme al barbone che vende biscotti. Arthur non ha fatto una piega e gli ha detto “Ela é italiana. Ele vai estar aqui conosco por um mês”. Starà con noi per un mese, Jair si è rilassato e mi ha finalmente sorriso come a dare il benvenuto alle mie mani sul suo corpo.

Ogni mattina siamo tornati a fargli la visita. Jair parla con la voce roca, come se avesse un osso di avocado incastrato in gola. Colpa di una tracheotomia fatta anni prima. Ma la mancanza di voce la compensa con la forza del suo corpo, col suo modo di coinvolgersi tutto mentre parla con la sorella. Quando discutono sembra che ballino con passione, senza toccarsi. Lui la tira in mezzo al suo ragionamento alzando il volume della voce.  Si scambiano parole ritmate e ridono insieme, lei lancia la testa all’indietro come in un casquet. Si scrutano per un po’ in silenzio e appena lei s’incupisce, Jair la lascia andare verso la finestra. Poi ci ripensa e la riprende nel discorso, ricominciando quel ballo di sguardi, risate e litigate. Jair non vuole andare in terapia intensiva dopo l’operazione, perché c’era già stato qualche anno prima per un grande infarto. In quel posto d’inferno non ha potuto vedere la sorella nemmeno una maledetta volta. Lei lo zittisce e gli gira le spalle, andrà in terapia intensiva dopo l’intervento, non si discute.

Abbiamo calcolato il suo rischio di mortalità per questa prima operazione, è altissimo. Ma questi calcoli scompaiono appena ho davanti le dita dei suoi piedi tutte storte che mi osservano, mentre guardiamo se ha un edema. E’ un po’ peggiorato rispetto a ieri, segniamo anche questo. Quelle dita mi fanno sorridere tantissimo. Jair tossisce e sputa fuori catarro rossastro mischiato  a quelle sensazioni sgradevoli che ha dentro. Sputa un po’ contro questa realtà, ma poi si risistema sul materasso come niente fosse. Gli abitanti di questi letti d’ospedale cercano sempre di stare comodi tra le loro personali sfortune. Si siedono tra tutte queste schifezze, cercando uno spazio per continuare a sentire la vita scorrergli dentro, sentire le emozioni. E non gliene frega niente di essere educati, vogliono essere loro stessi nonostante tutto. Canticchiare una melodia e poi sputare catarro rossastro.

A pochi giorni dall’operazione siamo andati a visitare Jair, ma la stanza era allagata di acqua e detersivo. “L’hanno portato in Terapia Intensiva!” ci dice la donna delle pulizie “intubato per una polmonite complicata nella notte”.  Jair finito nella sua infernale Terapia Intensiva, senza nemmeno essere stato operato. Doppia fregatura.

Io la penso allo stesso modo di Jair. Nel reparto di Terapia Intensiva mi sento come chiusa per ore dentro ad un sacchetto di plastica, senza aria. Il primario di cardiologia era felicissimo di potermi regalare un’esperienza in quel reparto e ha messo una buona parola sulla studentessa italiana. Io avrei preferito guardarmi tutte le puntate di  Beautiful piuttosto che uscire di lì ogni volta con le lacrime in gola.  Nonostante quei medici siano preparatissimi; loro impastano gli addomi alla ricerca di qualche dolore nascosto, maneggiano quei corpi consumati come fossero vasi di cristallo. Lavorano nell’ospedale pubblico e lottano con la frustrazione di avere poche risorse dallo stato. Sanno perciò fare diagnosi toccando, osservando e auscultando con un’incredibile attenzione ai dettagli. Stando qui, hanno scelto di occuparsi soprattutto di persone che vengono dai quartieri più impolverati della città. Parlano ai loro pazienti guardandoli negli occhi e poi s’inchinano per auscultare quei cuori arrugginiti per le troppe sigarette, il cibo spazzatura, l’alcool e malattie trasmesse da cimici che vivono nelle fessure delle baraccopoli. E non c’è mai un giudizio nei loro occhi, c’è la più totale accettazione della tua realtà, per quanto brutta sia.

Quando ho ritrovato Jair in uno di quei letti, mi sono sentita sollevata sapendo che qualcuno si sentisse come me. Ma io indossavo un camice mentre lui un pigiama che gli lasciava scoperto il fondoschiena. Aveva gli occhi appannati e l’ho osservato cercando di trovarci dentro quella forza  che gli avevo visto le settimane scorse. Parlava con un’infermiera ma non era più uno scambio alla pari. Jair non aveva abbastanza forza per farla roteare in mezzo ai suoi discorsi, per prenderla e lasciarla andare come faceva con la sorella. L’ho salutarlo e ho provato a dirgli che ci mancava, che Arthur mi chiedeva di lui. Ma deve essermi uscita dalla bocca qualche parola in portoghese mischiata con un italo-tedesco piuttosto imbarazzante. Lui ha scosso la testa, ha tossito sputando catarro e si è girato dall’altra parte.

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