Che cos’è un Pianeta? – A spasso tra cultura, rigore scientifico… e nani


Avete mai giocato a “Trova l’intruso”?

E’ un semplice gioco in cui, dato un insieme di vocaboli che rientrano in una certa categoria generica, occorre trovare quello che non è assimilabile agli altri all’interno di un’altra categoria più specifica. Proviamo, ad esempio, con il seguente elenco:

Brontolo-Eolo-Cucciolo-Dotto-Gimli-Gongolo-Mammolo-Pisolo

L’intruso da trovare in questo caso è Gimli, che nonostante sia un nano, non fa parte della storia di “Biancaneve e i sette nani“. Ora che avete capito le regole, proviamo una seconda volta.

Mercurio-Venere-Terra-Marte-Plutone-Giove-Saturno-Urano-Nettuno

Chi è l’intruso ora? I più attenti di voi avranno risposto: Plutone. Esatto!

Infatti, contrariamente a quanto molti di noi hanno studiato a scuola, i pianeti del sistema solare sono in realtà otto.

Ma prima che qualcuno di voi alzi la cornetta per telefonare alla propria (forse ormai anziana) maestra per chiedere spiegazioni, dovete sapere che non è sempre stato così: infatti, dal 1930 fino al 2006 il povero Plutone era veramente considerato un Pianeta.

Cosa può aver mai combinato di così grave per essere declassato? E se non è un Pianeta, allora che cos’è?

Tutto ebbe inizio nel 2005 quando, incurante dell’impegno che i bambini mettevano nell’imparare le filastrocche sui pianeti, un astronomo della Caltech, Michael Brown, identificò un corpo celeste a cui diede il nome Xena (in onore della principessa guerriera interpretata da Lucy Lawless!). Questo corpo celeste che orbitava intorno al sole, risultava essere quasi un terzo più grande di Plutone: era quindi candidato per diventare il decimo pianeta del sistema solare.

La scoperta di Xena aprì un acceso dibattito tra chi pensava che fosse stato scoperto un nuovo pianeta e chi invece riteneva fosse stato meglio depennare Plutone dalla lista dei pianeti. La seconda fazione affermava che comunque non sarebbe stata la prima “retrocessione” di questo tipo: basta pensare, infatti, a Cerere, che grazie alle sue dimensioni era stato catalogato nel 1801 come l’ottavo pianeta (è infatti l’asteroide più massiccio della fascia compresa tra Marte e Giove).

In ogni caso, nessuno dei due gruppi poteva motivare la propria idea basandosi su una vera e propria definizione scientifica. La definizione di Pianeta era infatti ancora quella derivante dall’originale significato greco rivisto solamente a seguito della rivoluzione copernicana. Un pianeta era definito come un oggetto orbitante attorno al Sole che si muove apparentemente nel cielo stellato.

Per tutti era chiaro che se si fosse mantenuto Plutone un pianeta, allora si sarebbero dovuti definire allo stesso modo tutti gli eventuali corpi del sistema solare che fossero risultati più grandi del nono pianeta, e questi potevano essere a migliaia! Pensate che differenza può fare per un ricercatore poter dire di aver scoperto un nuovo pianeta, piuttosto che un corpo celeste qualunque orbitante intorno al sole.

Nonostante ciò, in molti continuavano a sostenere che la definizione di pianeta dovesse mantenere un carattere culturale, in quanto era ormai una categoria che apparteneva alla gente, e gli scienziati non potevano arrogarsi il diritto di plasmarne il significato a loro piacimento.

Visto l’annoso diverbio che era ormai scaturito all’interno delle comunità scientifiche di tutto il mondo, nel 2006 l’Unione Astronomica Internazionale (IAU, International Astronomical Union) si riunì a Praga per prendere una decisione (Resolution B5 e Resolution B6).

Venne così aggiunto un requisito all’incompleta definizione citata in precedenza. Un pianeta è quindi definito come un corpo celeste che orbita intorno al sole e che presenta, inoltre, dimensioni sufficienti per assumere forma sferica a causa della sua forza di gravità. Questo requisito però non è ancora sufficiente a rendere memorizzabili i nomi di tutti i potenziali pianeti: in questo modo il loro numero oscillerebbe, infatti, intorno a novecento piuttosto che a nove.

Al precedente, si aggiunse così un terzo requisito, che prevede che un corpo celeste, per entrare nella tanto agognata famiglia dei pianeti, debba anche aver spazzato via altri oggetti dell’area attorno a sé.

In questo modo, i pianeti sono tornati ad essere semplicemente otto. A scapito del povero Plutone al quale però tocca il podio del Pianeta Nano. Stessa fine ha fatto Xena, nel frattempo rinominato in Eris, forse per legge del contrappasso (Eris è infatti la personificazione delle discordia nella mitologia greca).

Ora qualcuno dovrà avvisare il gruppo musicale Vegetable G che la loro canzone “La filastrocca dei nove pianeti” dovrà essere rivista in base a quanto stabilito dallo IAU, ma forse a loro di questo importa poco. E avrebbero forse ragione, difatti non possiamo sapere quando il prossimo capriccio “scientifico” proverà a rimettere mano alla definizione di pianeta, poichè in fondo la categorizzazione è un concetto puramente relativo: esiste infatti un numero infinito di categorie che potremmo fare esistere solamente definendole. Un po’ come la definizione di razza, che seleziona arbitrariamente una serie di proprietà che a livello biologico non sono più significative del colore dei capelli o del fatto di essere mancini o destrorsi.

Vi lasciamo, quindi, con un interessante spunto proposto da David Weinberger sull’argomento:

<<Se chiamiamo “pianeta” Xena, cosa impariamo su di esso, a parte il fatto che risponde ai criteri che abbiamo accettato? Ci sono milioni di oggetti intorno al Sole: i nove che abbiamo chiamato pianeti sono interessanti per noi perché fanno parte della nostra cultura. Mantenere una categoria di pianeti non è importante perché ci dice qualcosa di nuovo sulla natura dell’universo, quanto piuttosto perché ci parla di noi stessi, della nostra natura e della nostra esigenza di immaginare la possibilità di camminare su altre sfere oltre la nostra. I pianeti, dunque, non sono interessanti per ciò che sono, ma per ciò che noi siamo, e per i nostri sogni. Ciò non vuol dire che non abbiano un significato, al contrario. Il fatto che insistiamo per mantenere in vita la categoria, pur in assenza di ragioni scientifiche decisive per farlo, dimostra la presenza di un senso più profondo, che diventa sempre più rilevante quanto più i vari ambiti di ricerca si liberano dalle catene della categorizzazione e si uniscono al turbine del caos. Il modo in cui organizziamo il nostro mondo riflette non solo il mondo stesso ma anche i nostri interessi, le nostre passioni, le nostre necessità, i nostri sogni.>>[1]

 


[1] “Elogio del disordine – Le regole del nuovo mondo digitale” – David Weinberger

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