Le cronache di Capsicum (Lo Scoville, la capsaicina e lo scoiattolo)


Avete mai avuto occasione di mangiare della pasta alla nduja?  Per chi non lo sapesse, la nduja è un particolare insaccato morbido, tipico della Calabria, costituito generalmente per il 70% di carne di maiale e il 30% da peperoncino ed è ben nota per le sue doti di “piccantezza”. Ma se dovessimo stabilire quanto piccante sia, come potremmo fare?

Tutti quanti in vita nostra abbiamo definito taluni piatti “più/meno piccanti” rispetto ad altri, ed è facile imbattersi in persone che hanno una predilezione per i sapori piccanti più di altre. Ma siamo in grado di fornire una scala di “piccantezza” precisa così come possiamo ordinare le nostre matite dalla più lunga alla più corta in base ai centimetri che misurano?

E’ la stessa domanda che si pose Wilbur Scoville, chimico statunitense vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900. Nato a Bridgeport (Connecticut) il 22 gennaio del 1865, nella sua vita è stato tesoriere e segretario per l’American Conference of Pharmaceutical Faculties (1901-1904), ha ottenuto riconoscimenti dall’American Pharmaceutical Association (APhA) e una laurea ad honorem in Scienze dalla Columbia University grazie alle sue opere: una di queste, “Art of Compounding”, è stata fino agli anni ’60 uno dei testi di riferimento per gli studi farmacologici. Nonostante tutto ciò, il nostro Wilbur Scoville è ricordato oggi per una semplice scala: la cosiddetta scala di Scoville.

Ricercatore alla Parke-Davis, primo laboratorio di ricerca farmacologica al mondo (oggi di proprietà della compagnia farmaceutica Pfizer), Wilbur pensò che il mondo meritasse un’unità di misura per determinare la “piccantezza” di un alimento, così studiò vari metodi per poterla determinare. Nel 1912, escogitò il test organolettico (SOT, Scoville Organoleptic Test) che come unità di misura utilizza (guarda caso!) la scala Scoville. Il test prevede che un gruppo di assaggiatori, presa in esame una soluzione dell’estratto di un peperoncino, la diluisca in acqua e zucchero finché il “bruciore” non sia più percettibile: più piccante è il tipo di peperoncino, più acqua e zucchero sono necessari per far scomparire l’effetto bruciore e quindi più alto è il valore di unità Scoville di quel particolare peperoncino. Ovviamente questo tipo di test è molto soggettivo, infatti oggi esistono vari metodi più scientifici (ad es. il metodo High-Performance Liquid Chromatography) per misurare la piccantezza di un peperoncino, ma tutti questi metodi continuano comunque a utilizzare l’Unità Scoville (o grado Scoville).

Ma cosa misura in realtà la scala Scoville?

La piccantezza percepita masticando un peperoncino deriva direttamente dalla quantità di capsaicina presente nell’alimento: la scala Scoville determina l’attività della capsaicina sui recettori del calore della lingua e i suoi valori, stabiliti arbitrariamente dall’esperto Wilbur, vanno da 0 (per un normale peperone) a 16 milioni (per la capsaicina pura).

Per fare alcuni esempi sulla scala Scoville, un Jalapeño è solitamente attorno ai 3.000 US (Unità Scoville), il peperoncino calabrese (ottimo per una gustosa nduja) può misurare 30.000 US, mentre il terribile Habanero può superare i 300.000 US (lo spray al peperoncino della polizia può arrivare a 5.300.000 gradi Scoville). Questi numeri ci dicono che 1cc  di Habanero ridotto in pasta dà ancora una sensazione piccante dopo essere stato diluito in circa 300 litri (300.000cc) di acqua.

La capsaicina (la cui struttura chimica è descritta qui) risiede principalmente nel tessuto placentale a cui i semi sono attaccati (e non nei semi stessi) ed è la rappresentante più piccante delle sostanze appartenenti al gruppo dei capsaicinoidi, sostanze chimiche caratteristiche delle piante del genere Capsicum, a cui appartengono le varie specie di peperoncino e il peperone.

Ma come mai la capsaicina provoca quella sensazione di bruciore?

La capsaicina produce una sensazione di bruciore nelle mucose in quanto la sua composizione le permette di interagire con i recettori VR1 e VRL-1 ( che in condizioni normali si attivano rispettivamente alle temperature di circa 43°C e 52°C).

Si apre così un canale nella membrana cellulare che permette l’immissione di ioni calcio. Questi causano la trasmissione di un segnale di dolore che raggiunge il cervello, ignara vittima dall’ingannatrice capsaicina: è quindi l’attivazione di questi recettori (che sono presenti sulla bocca e sulla pelle) a creare quell’effetto virtuale di bruciore (anche se il dolore sembra realissimo), infatti la temperatura della nostra bocca non varia quando mangiamo del peperoncino.

Restano invece totalmente virtuali gli effetti disinfettanti attribuiti alla capsaicina e la presunta capacità di causare spiacevoli emorroidi: in realtà, poiché gran parte dei capsaicinoidi non vengono digeriti, l’effetto sull’ano è lo stesso che nella bocca, ossia di stimolazione dei recettori per il dolore. La capsaicina è l’unico composto noto in grado di liberare l’emissione della sostanza P, il neurorecettore che trasmette i segnali di dolore fino al cervello in tutti i mammiferi (a meno del povero eterocefalo glabro, un roditore dell’Africa orientale).

Abbiamo quindi visto che il piccante non è uno dei gusti fondamentale, in quanto il dolce, il salato, l’aspro, l’amaro e l’umami sono dotati di recettori propri, mentre il piccante agisce ingannando i recettori della temperatura: è la stessa cosa che fanno alcune molecole, come il mentolo, sui sensori di freddo (provate a masticare una caramella alla menta!).

Se per spegnere un fuoco usiamo l’acqua, lo stesso metodo non funziona per spegnere il bruciore da capsaicina: questa sostanza è infatti poco solubile in acqua; potete però bere dell’acqua molto fredda sperando che la bassa temperatura vi aiuti a diseccitare i recettori. La sostanza è invece solubile nei grassi, negli oli e in alcool; è quindi una buona pratica cercare di alleviare l’eventuale dolore pasteggiando con prelibati formaggi, della croccante pancetta e sorseggiano della buona birra. Inoltre è consigliabile masticare del pane che vi aiuta a rimuovere la capsaicina per azione fisica.

Nonostante tutte queste scoperte scientifiche siano state fatte nell’arco degli ultimi 10 anni, l’uomo e i peperoncini convivono da molto tempo.

Giunto in Europa grazie a Colombo (sempre lui!), il peperoncino si è poi diffuso in Africa e Asia. Nonostante gli Aztechi siano stati i primi uomini a utilizzarli come alimento, i peperoncini sono originari della Bolivia e di alcune parti del Brasile e vennero successivamente propagati in tutte le Americhe dagli uccelli, che sono immuni all’azione della capsaicina.

I volatili, infatti, non possedendo i recettori con cui interagisce la capsaicina, non risentono degli effetti “brucianti” che questa può causare. E’ per questo motivo che i peperoncini sono il cibo preferito di molti volatili: essi costituiscono, infatti, una fonte di vitamina C e carotene, a loro necessaria soprattutto durante la muta del piumaggio. In cambio gli uccelli aiutano la pianta spargendone i semi sia mentre consumano i frutti, sia attraverso le feci, in quanto questi semi riescono a oltrepassarne inalterati l’apparato digerente. Si pensa che questo tipo di relazione abbia promosso l’evoluzione dell’attività protettrice della capsaicina.

Questo rapporto tra uccelli e capsaicina è stato fonte di ispirazione per gli avicoltori irritati dai continui saccheggi di sementi ad opera di piccoli roditori come gli scoiattoli: possiamo quindi oggi trovare il marchio “Squirrel Free” sulle sementi trattate con la capsaicina. Queste particolari miscele devono comunque essere molto piccanti, in quanto per far retrocedere uno scoiattolo dal furto alimentare occorrono circa 20.000 US e per ottenerle occorre essiccare circa 66 Habaneros per un solo chilogrammo di mangime avicolo.

Un’idea simile la ebbe Ken Fischer quando ideò una vernice speciale per scafi in grado di tenere lontano i molluschi che si attaccano alla chiglia aumentandone la resistenza idrodinamica: al contrario delle nocive sostanze antimuffa  questa vernice a base di peperoncino incoraggia i cirripedi e i loro simili a non sostare sulla chiglia troppo “calda”.

A parte questi piccoli stratagemmi, la capsaicina ci può essere utile per tante altri motivi più inerenti alla nostra salute: come anticoagulante può limitare il rischio di ictus e infarti; può essere usata nella lotta ai dolori lancinanti provocati dal fuoco di Sant’Antonio; alcuni studi dimostrano che impedisca a sostanze cancerogene di legarsi al DNA (ovvero è utile per la lotta ai tumori); risulta essere un ottimo rimedio contro disturbi tipo la gastrite atrofica e le riniti non allergiche; infine, ricercatori italiani hanno dimostrato che la nebulizzazione in narice di capsaicina può alleviare le cefalee notturne parossistiche.

Inoltre, visto che il dolore provocato dalla Capsaicina stimola il cervello a produrre endorfine, abbiamo trovato un modo gustoso di produrre un oppiaceo naturale in grado di agire da analgesico e offrirci una sensazione di benessere.

In generale quindi, se steste male, provate a farvi aiutare da un po’ di capsaicina. E se proprio non dovesse funzionare, potete rimettere tutto a posto con un bel bicchierone di latte o un’ottima Caipiroska.

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