Qualunquemente e Quantunquemente Mais


<<Disponibilità e varietà del cibo hanno esercitato un ruolo non secondario sullo sviluppo evolutivo della specie umana. Di fatto, se si dipende troppo da un particolare tipo di cibo, questo può venire più facilmente a mancare; se, invece, si mangia di tutto è meno probabile che l’indispensabile venga a mancare completamente. Si spiega così come l’Homo Habilis, onnivoro, sia sopravvissuto allo Australopithecus Robustus, ominoide che viveva di sola frutta, noci ed erbe>> (Treccani).

Nonostante possa sembrare rassicurante sapere come la nostra variegata alimentazione abbia permesso la sopravvivenza della nostra specie, scopriremo con questo articolo come in realtà stiamo diventando sempre meno onnivori e sempre più simili al Koala o alla Farfalla Monarca che si nutrono, rispettivamente, di solo eucalipto o asclepiadacee, così come i Puffi di Puff-Bacche.

Ascoltando le parole di un chiaramente eccitato Cristoforo Colombo, la regina Isabella probabilmente non tenne troppo in considerazione la descrizione che l’avventuriero diede di una strana pianta molto alta con una spiga larga quanto un braccio, in cui i grani erano <<fissati in modo mirabile con forma e dimensione di piselli, di color bianco come quando sono appena nati>>[1]. Quella pianta fu presentata a corte con il nome con cui lo identificavano i nativi, Mahiz, e il suo nome odierno è Zea Mays (L.), ma è indubbiamente noto a tutti come Mais (o granoturco). Nessuno poteva immaginare che quello altro non era che un ulteriore passo verso la dominazione del mondo, non da parte del Regno Spagnolo, ma da parte dello Zea Mays. Evolutosi dal Teosinte, da più di 7.000 anni era, infatti, conosciuto presso i popoli del Nuovo Messico e già dal 700 d.C. gli indiani d’America lo coltivavano nelle aree dell’attuale Canada.

All’arrivo degli europei, il mais aveva già capito chi sarebbe stato il nuovo “padrone” e, come si confà ai più abili trasformisti politici, mise in mostra le sue elevate doti di adattamento assecondando le necessità dei nuovi esseri umani con cui era entrato in contatto: Cristoforo Colombo non era nient’altro che un’ignara pedina nell’ascesa dello Zea Mays. Nonostante la coltivazione tardò a farsi strada nel Vecchio Mondo (il mais era inizialmente coltivato solo nei giardini dell’Andalusia, di Francia e Italia), nella sua terra natia non concesse vita facile alle piante che i nuovi coloni portavano con loro. Il frumento portato dall’Europa non aveva la stessa efficienza del granoturco: da un chicco di grano si potevano ottenere circa 50 nuovi chicchi, a differenza dei 150 (o addirittura 300) ricavabili da un solo chicco di mais [1]. Da allora a oggi sono passati molti anni, e per quanto possa sembrarci strano sentir dire che il mais stia colonizzando il nostro pianeta, presto vedremo perché questa affermazione è più vera che mai.

Una ricerca effettuata dal Leopold Center for Sustainable Agricolture (Iowa State University) ha analizzato la perdita di diversità delle coltivazioni nello Stato dell’Iowa dal 1920 ad oggi: in questo Stato quasi un secolo fa si potevano trovare, oltre al mais, anche raccolti di patate, mele, ciliegie, grano, prugne, uva, fragole, pere, pesche, orzo, lamponi, anguria, pomodori, cavoli. Nel 2002 si coltivavano solo mais, soia, fieno e avena. La motivazione può essere ritrovata nei tanti usi che l’uomo ha saputo fare della Zea Mays. Il mais è, infatti, utilizzato per produrre carburante, come mangime per animali e per sfamare gli esseri umani (direttamente come prodotto finito o indirettamente per trattare altri alimenti).

Ingrassare bovini, polli e maiali con mais invece che con erba o fieno è molto più economico: così vanno avanti i feedlot, e così viene nutrita la maggior parte di carne che finisce nelle nostre cucine. Senza addentrarci a fondo in questo tema, citiamo solo la problematica dell’ ingrassare animali ruminanti con mangime che non sia erba: il rumine è un secondo stomaco che si è evoluto in maniera perfetta per digerire l’erba (foraggio), non il mais (o cereali). Questo tipo di utilizzo del mais crea scompensi nel flusso alimentare bovino-mangia-cereale e uomo-mangia-bovino, poiché , ad esempio, alcuni batteri che vivono nell’intestino degli animali sono in grado di resistere fino agli hamburger e alle bistecche. Se si tratta di bovini allevati “a erba”, questi batteri si sviluppano in un rumine con un basso tasso di acidità e, scontrandosi con l’acido del nostro stomaco, muoiono. Purtroppo i rumini degli animali allevati a mais hanno un livello di acidità pressoché simile a quello dell’uomo, cosicché i batteri in grado di vivere all’interno dello stomaco di una mucca possono  prosperare anche all’interno del nostro (si veda ad esempio l’E. Coli 0157:H7).

Ma, ahi loro, gli animali non sono i maggiori utilizzatori di mais, in quanto il primato spetta, infatti, a noi. Che lo vogliate o no, siamo tutti dei grandi utilizzatori di mais, partecipando al grande progetto di conquista del mondo da parte dello Zea Mays. E’ inutile che ci mettiamo a contare le scatolette di mais da insalata che abbiamo nei nostri scaffali in cucina per sbugiardarci, non ci stiamo, infatti, riferendo al solo mais del reparto frutta e verdura, ma alle montagne di mais che indirettamente “ingurgitiamo” ogni anno. La carne che mangiamo è nutrita col mais (la filiera indiretta si allunga pensando che da quegli stessi animali traiamo uova e latte).

fig.A: Prodotti derivanti dalla lavorazione del mais

Fig. 1: Prodotti derivanti dalla lavorazione del mais.

Le dolci bibite che beviamo sono fatte con il mais. I pasti precotti? Principalmente mais. Per non parlare dei biscotti, delle ciambelle e delle patatine! Se tutto questo vi sembra un po’ troppo delirante e complottista, prendete qualche scatola di merendine o un sacchetto di patatine e cominciate a leggere la lista in Fig. 1.

Tutte queste prelibatezze sono fatte (o prevalente fatte) con il mais [2][3][4].

Ora, assimilando cibi fatti con il mais, diventiamo anche noi fatti di mais. Sì, può sembrare assurdo, ma la scienza in realtà ci spiegherà perché quest’ affermazione è più vera di quanto possa sembrare. Tralasciando alcuni tecnicismi, il carbonio finisce nelle nostre cellule tramite le piante (che assorbono il carbonio tramite la fotosintesi) e gli animali che mangiamo (che si nutrono delle piante). Potendo isolare il carbonio proveniente da piante di mais, il biologo Todd Dawson dell’Università di Berkeley, a seguito di una ricerca sugli utilizzi del mais nella vita del popolo americano, ha commentato che un americano medio <<è come un sacchetto di patatine di mais con le gambe>>.

Ma se è chiaro come il mais diventi carne, come fa a entrare nelle nostre bevande e in tutti gli altri cibi? Lo fa tramite un processo lungo (e complesso) che cercheremo di riassumere al meglio. Si inizia con la scissione del chicco di mais in diverse parti che poi vengono ricomposte in vari modi per generare dolcificanti o amidi, tramite la “macinazione ad acqua. Durante questo processo, il mais subisce alcune operazioni di trasformazione tramite frantumazione e immersione in acidi, atte a ridurre il mais in molecole semplici (per la maggior parte zuccheri). Il mais viene, infatti, dapprima suddiviso nelle parti che lo compongono: buccia,  germe, endosperma, base e pericarpo. Ognuna di queste parti ha un suo utilizzo specifico nel meraviglioso processo di trasformazione del mais. Il germe, ad esempio, può essere utilizzato per creare olio da cucina o da condimenti, oppure per produrre la margarina (piena di gassi “trans”, presenti in moltissime merendine). Da questa sequela di processi si ottiene una polvere bianchissima: l’amido di mais, un prodotto ricavato per la prima volta nel 1840 e utilizzato in principio dalle lavandaie per inamidare le camicie. Quasi trent’anni dopo, in Giappone venne scoperto un enzima in grado di trasformare il glucosio in fruttosio, molecola assai più dolce: era così nato lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio (HFCS), dolce esattamente come lo zucchero normale.  A oggi, il mais che non è trasformato in HFCS diventa maltodestrina, o altri prodotti già citati. Gli scarti dell’industria alimentare diventeranno a loro volta etanolo o plastiche. Se pensiamo che poi anche l’acqua utilizzata per il processo di macinazione del mais è riutilizzata (spesso impiegata per creare mangimi animali), ecco che si può affermare che “del mais non si butta via niente”, un po’ come la fine che le nonne romagnole erano solite far fare al baghino (nome romagnolo per il maiale). Ciò che l’uomo o l’animale non mangia, o che non bruciano i motori, l’industria riesce a utilizzarlo per produrre prodotti di uso domestico (panni per la polvere, lucido per scarpe, libri, batterie, matite colorate,…) o di uso farmaceutico (antibiotici, aspirina, sciroppi medicinali, disinfettanti, bende,…).

Per fare un esperimento su quanto abbiamo scoperto finora, provate a prendere alcuni prodotti dalla vostra dispensa e controllate quanti di questi contengono il già citato HFCS, meglio noto come sciroppo di glucosio-fruttosio. Scoprirete che questo non è presente solo nelle bibite o nelle merendine, ma anche nel ketchup e nella senape, nel pane come nei cracker e nei cereali, nei condimenti e anche nel prosciutto!

Ora dovrebbe essere a tutti chiaro come il mais abbia piano piano conquistato il nostro mondo, partendo della conquista dei mercati, e, se questo fosse un articolo di stampo economico-finanziario, saremmo solo all’inizio della nostra discussione. Invece ci fermiamo qui, un po’ più consapevoli del fatto che mangiamo (e usiamo) più mais di quello che pensavamo, di come mai questo sia potuto accadere e del perché in realtà non ce ne accorgiamo.

La piccola pianta nata sulle colline dell’America centrale e portata a noi da Cristoforo Colombo è diventata la protagonista della più grande e costosa catena alimentare nella storia del mondo, che questo poi sia un bene o un male, a voi deciderlo.

Whose side are you on ?

 


[1] “Il dilemma dell’onnivoro” – Michael Pollan

[2] http://www.diprove.unimi.it/agronomy/corso_dr_pecetti/slides15.pdf

[3] http://trashfood.com/2008/04/05/amido-modificato/

[4] http://www.my-personaltrainer.it/fruttosio.html

Si veda anche:

[5] “Storia delle abitudini alimentari. Dalla preistoria ai fast food” – Giancarlo Signore

[6] Twinkie, Deconstructed – My Journey to Discover How the Ingredients Found in Processed Foods Are Grown, Mined (Yes, Mined), and Manipulated Int” – Steve Ettlinger

2 Comments

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  1. fabio

    Questo articolo mi ha fatto ricordare di quando leggevo di una futura immissione del mais OGM in europa ed anche in italia. Un così diffuso utilizzo del prodotto sia per alimentazione diretta che attraverso l’alimentazione del bestiame può risultare eccessiva, e probabilmente dannosa, per i motivi che avete illustrato ma anche per le caratteristiche, seppur poco note, delle coltivazioni transgeniche.

    I seguenti articoli confermano la liberalizzazione del mais transgenico in italia distribuito dalla “pioneer” per conto della Monsanto nel 2013. Sorvolando sulle normative europee che non lasciano libertà al paese italiano di chiudere le porte al transgenico, è bene che si sappia come una coltivazione transgenica possa diventare un business importante a discapito dei nostri coltivatori.

    Infatti le sementi sono “progettate” per resistere ad una coltivazione intensiva che necessita di erbicidi e pesticidi in grandi quantità,letali per le coltivazioni tradizionali. Una visione un pò pessimistica potrebbe vedere un futuro delle coltivazioni ogm che domina sulle colture “normali”. Nei casi peggiori si immettono nel mercato semi sterili (Monsanto, “terminator”) che daranno frutto per un solo raccolto.
    E’ immediato notare come si istituirebbe una sorta di Royalty annuale per i nostri coltivatori.

    Let’s think about

    Alcuni siti, cercate!!!

    http://www.repubblica.it/ambiente/2012/10/12/news/arriva_in_italia_il_mais_ogm-44410227/

    http://www.ecoblog.it/post/34029/in-italia-arriva-il-mais-ogm-e-al-nord-semineranno-il-mon810-nel-2013

    http://www.ilcambiamento.it/inquinamenti/sentenza_ue_apre_mais_ogm_italia.html

    • Edward William Gnudi

      Ciao Fabio,
      grazie per la risposta e per aver integrato l’articolo con le tue conoscenze.
      Quello che dici avviene infatti in altre parti del mondo già da anni. Per dover di cronaca (e di divulgazione) vorrei chiarire la differenza tra il problema legato ai “semi sterili” (o non riutilizzabili) da quello dei “semi OGM”. Già agli inizi del secolo scorso, infatti, vennero introdotti i semi ibridi sul mercato agricolo: i semi ibridi si ottengono incrociando due tipi diversi di mais (ad esempio uno resistente alle malattie con uno che ha un’elevata resa di raccolto). Il problema è che questo tipo di comportamento fa sì che la semina successiva non si possa fare con i figli delle piante ibride, in quanto non presenteranno le stesse caratteristiche dei padri (Mendeleev insegna). Così già all’epoca gli agricoltori decisero di acquistare i prodotti per la semina da società terze che si occupavano di produrre mais ibrido per ogni raccolto.
      Oggi, invece dell’ibridazione, si utilizza la genetica: un prodotto OGM non si ottiene tramite ibridazione, ma aggiungendo geni al DNA della pianta e i nuovi geni non derivano da piante della stessa specie, ma da batteri o altri organismi. Questa differenza può sembrare inutile se non ci interessa la modalità di creazione del prodotto finale, ma nasconde una verità importante (e redditizia per alcuni): non si può reclamare la proprietà della specie mais (o di ibridi), ma si può acquisire il brevetto di una pianta geneticamente modificata.
      Il problema quindi non sta tanto nel fatto che ogni anno si devono acquistare semi da terzi, ma che legittimare una società a vendere i suoi OGM, le facilita la strada verso il monopolio del mercato (quindi i semi si comprano solo dalla società che detiene il brevetto).
      Grazie di nuovo per il tuo contributo!

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