Legge sull’eliminazione della violenza sulle donne, un anno dopo: tanti i passi ancora necessari per fare la storia in Tunisia.


Era il 26 luglio 2017 e il Parlamento tunisino approvava una legge storica, la prima volta a combattere la violenza contro le donne.
Con 146 voti favorevoli su 217 si è dato il via libera a nuove misure per punire forme di violenza non solo fisiche, ma anche economiche, politiche e psicologiche e, allo stesso tempo, misure preventive come la creazione di training per lo staff medico al fine di individuare e valutare casi di violenza e per gli educatori affinché risultino in grado di affrontare e gestire simili episodi nelle scuole.

La legge prevede inoltre l’istituzione all’interno delle Forze di Sicurezza Interna tunisine di unità dedite alla violenza domestica e permette alle vittime di richiedere ordinanze restrittive affinché il presunto colpevole sia allontanato dall’abitazione e dai figli.
Parallelamente si è preceduto all’eliminazione dal codice penale della disposizione che permetteva al violentatore di evitare la pena sposando la vittima.

Sono stati in primis i numeri a sottolineare la necessità di una legge sull’eliminazione della violenza sulle donne: secondo un’indagine del National Family Office (2010) il 47% delle donne tunisine è stata vittima almeno una volta di violenza domestica.

Le organizzazioni locali dedite alla lotta per i diritti delle donne sono state sostenute nella loro lunga lotta per arrivare a compiere questo importante passo in campo legislativo da diverse organizzazioni internazionali, in primis UN Women che ha contribuito alla revisione e finalizzazione della legge stessa.

Prima di questa la tutela della donna era garantita solamente dal Codice dello Statuto della Persona promulgato nel 1956 che aboliva la poligamia, stabiliva un’età minima per il matrimonio che doveva avvenire in comune accordo delle parti, e affermava il diritto delle donne a lavorare, aprire conti in banca e iniziare una propria attività.

È passato un anno dall’approvazione della legge e le parole pronunciate allora di Amna Guellali, direttore dell’ufficio tunisino di Human Rights Watch, risuonano ancora purtroppo solo come auspicio: “Il governo deve ora finanziare e supportare le istituzioni affinché possano trasformare questa legge in effettiva protezione”.

Al momento le donne sopravvissute si affidano ancora ai centri accoglienza dell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates (ATFD), creata nel 1989 da numerose attiviste e ancora oggi impegnata nella lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne. Ma questa, come altre organizzazioni locali, ha risorse economiche limitate e dovrebbe dunque essere affiancata da un sistema di protezione adeguato finanziato dalle istituzioni governative.

I primi risultati iniziano comunque a vedersi a un anno dall’approvazione della legge: questa infatti da una parte ha dato la forza a diverse donne di denunciare le violenze, invece di accettare un matrimonio “riparatore” per evitare la vergogna, e dall’altro obbliga gli ufficiali di polizia a riportare il caso all’ospedale e garantire che le vittime vengano visitate dai medici legali.
In passato proprio la polizia era parte del problema in quanto spesso convinceva le vittime a far cadere le accuse e a ridurre il caso a questioni private da risolvere tra le mura domestiche.
Lo stesso approccio veniva adottato anche dai giudici, molti dei quali tutt’ora si oppongono alla legge, in quanto la violenza domestica è spesso difficile da provare.
Alla formazione di quest’ultimi si stanno dedicando diverse organizzazioni dedite ai diritti civili, compresa l’ATFD, ma, secondo gli attivisti, ancora non si è riusciti nell’intento di cambiare la mentalità e la cultura degli operatori del sistema giudiziario.

Un deciso intervento del governo in termini di finanziamenti è dunque necessario affinché non si avveri quello che è lo scenario delineato da Ahlem Belhadj, una delle fondatrici dell’ATFD: “Ci sono voluti 30 anni di lotte per ottenere questa legge. Ma potrebbero servircene altri 30 per cambiare davvero la condizione delle donne”.

Intanto il presidente tunisino Béji Caïd Essebsi sta dando segnali chiari in merito alla lotta per i diritti delle donne: lo scorso settembre ha abolito il divieto risalente al 1973 che non permetteva alle donne di sposare uomini non musulmani e nelle scorse settimane si è fatto portatore di una prima proposta di legge secondo la quale a uomini e donne deve spettare una pari eredità. Attualmente, in accordo con la legge islamica, le donne ricevono metà dell’eredità spettante agli uomini ritrovandosi quindi fortemente limitate in termini di autonomia economica.

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