Unsane di Steven Soderbergh – La rimozione del dolore.


Sawyer Valentini è una giovane donna che lavora e vive in una grande città americana nel quale si è trasferita, lontana da Boston, dove vive la madre e quel poco che resta del suo vecchio giro.

La prima impressione è quella di una femmina forte, decisa, capace ed emancipata, stimata dal capo e dalla giovane collega vicina di scrivania.

Una donna contemporanea che mangia insalata in scatola seduta, da sola, al parco, indossando un vestito e occhiali alla moda, mentre contatta la madre in videochiamata, mostrandole l’entusiasmo di una donna in carriera.

In questo quadro quotidiano apparentemente idilliaco, come è tipico del genere thriller, il regista dissemina alcuni indizi, inducendo lo spettatore attento a depositare un occhio più vicino alle pieghe della tela.
Ma, come le debolezze di un falso artistico vengono rivelate dalla luce del sole, qui, al contrario, sono le luci artificiali della notte a mostrare le prime prove della fragilità della psiche umana.

Ed infatti, giunta la sera, quello che fino a poco prima poteva solamente intuirsi, viene allo scoperto dopo un incontro occasionale fra Sawyer e un uomo rimorchiato grazie a una app di incontri in un bar.

I due soggetti si rifugiano a casa della protagonista, pronti a consumare la loro notte d’amore, sotto una luce soffusa (veramente bella l’inquadratura del corridoio e della lampada).

E qui, accade l’inspiegabile.

La donna, dopo il primo bacio, scappa in bagno terrorizzata e si chiude a chiave. L’uomo, attonito, esce di scena in silenzio.

Il risveglio dalla nevrosi coincide con la decisione impulsiva della donna di contattare una clinica psichiatrica, specializzata in vittime di stalking.

Si comprende, allora, che il passato di Sawyer è segnato dal trauma di un uomo che la perseguitava e che l’ha costretta alla fuga in un’altra città con il conseguente abbandono di ogni certezza.

Nell’avvicendarsi dei traumatici eventi successivi, si percepisce tutta l’intensità del dolore di una donna sola, incapace di rivelare agli altri (compresa la madre) gli eventi che l’hanno scossa.

Giunta alla clinica, dispersa in una spettrale foresta della Pennsylvania (da notare l’immagine dall’alto, più volte ripetuta, per risvegliare il senso di abbandono e solitudine e l’isolamento dell’istituto psichiatrico),  la donna incontra una psichiatra dall’aspetto rassicurante, una donnona nera grassa, e le rivela tutto.

La dottoressa le rivolge, allora, alcune domande specifiche,  a cui la protagonista, convinta di potersi fidare, risponderà, determinando, però, l’inizio del suo calvario psichiatrico.

Sollecitata a firmare dei fogli come da procedura standard, Sawyer non si accorge, infatti, di aver appena sottoscritto le carte del suo immediato ricovero.

Dopo essere stata sottoposta ad una serie di pratiche invasive tutte al limite della legalità, la protagonista viene improvvisamente risucchiata all’interno della clinica, costretta a condividere il reparto con un alcuni pazienti psichiatrici che tentano o di rimorchiarla, o di intimidirla, costringendola a reazioni violente che hanno il solo effetto di provocare controreazioni altrettanto violente da parte degli infermieri e degli altri membri del reparto.

Fra questi nemici reali o solo mentali (e tenterò di spiegare più avanti il perché) giunge all’improvviso l’immagine del suo stalker nei panni di uno degli infermieri.

In un puzzle complicato di intrighi e di metafore, Soderbergh fa comparire l’immagine del maniaco in un momento chiave, appena dopo che Sawyer, resasi conto della sua condizione di prigioniera, tenta la disperata resistenza e la fuga.

la protagonista Sawyer tenta di mettersi in contatto con la Polizia.

Ecco, arrivati a questo punto, sono costretto a  prendere una posizione. Infatti, chi vedrà questo film uscirà dal cinema tentando di rispondere alla medesima domanda: tutto ciò che accade è realtà o è solo ciò che la mente della protagonista immagina?

Una domanda scontata per un thriller psicologico la cui risposta il regista, fino alla fine, vuole lasciare in sospeso. Per questo affermo di essere costretto a fornire la mia interpretazione.

A guardare bene da vicino, infatti, sono più gli elementi che mi conducono alla seconda risposta piuttosto che alla prima.

Innanzitutto, il primo elemento è dato dalle tempistiche dell’arrivo dello stalker: poco dopo essere andata per la prima volta in escandescenza, infatti, Sawyer viene sedata da un pool di infermieri in cui la protagonista scorge, per errore, il viso barbuto dell’uomo che la perseguitava in passato.

In quel preciso momento, infatti, sembra infatti intensificarsi nella mente della protagonista un processo di alterazione della realtà fisica.

Poco dopo quella che potremmo chiamare un’allucinazione, come dicevo, spunta il maniaco – questa volta, con la sua vera faccia, e travestito da infermiere (anche qui pregevole l’accostamento fra stalker e infermiere, che si ritrova in altri film, vedi, ad esempio, Misery non deve morire di Rob Reiner).

Inoltre, si capisce abbastanza chiaramente che la donna non è riuscita a superare il trauma della violenza subita grazie a due elementi: il primo coincide con la sovrapposizione fra la storia dello stalker e quello della protagonista, entrambi orfani di padre; mentre il secondo elemento si rintraccia nel bisogno da parte di Sawyer di reperire una figura amica in grado di ascoltare il suo racconto (che nel racconto coincide con il giornalista di colore, l’unico a crederle per davvero e ad aiutarla).

Per interrompere l’incubo della caduta psichiatrica e della sua reclusione clinica, la donna si affiderà all’insopprimibile istinto di sopravvivenza, che le imporrà una scelta definitiva e tragica: quella di rimuovere definitivamente il ricordo del suo torturatore.

Le modalità in cui tale rimozione si verifica le lascio interpretare a voi con la visione dell’ultima mezz’ora del film.

Facendo una sintesi finale,  allora, credo che il pregio di questa pellicola non  si rintracci esclusivamente nello stile con cui è girata, che pure è senz’altro innovativo e ha il merito, grazie all’utilizzo dell’iPhone, di  accentuare il realismo di un’atmosfera voyeuristica perfetta per trattare un tema così complesso come quello dello stalking.

E’ lo spettatore, infatti, a trovarsi coinvolto in quest’atmosfera direttamente, come se fosse dalla parte dello spione.

Ma questo, come accennavo, non è l’unico merito di Soderbergh: mi pare, infatti, che limitare il suo ultimo lavoro ad un’opera ben girata che tratta solo esclusivamente di stalking sia assai riduttivo.

Lo spettro delle tematiche è, mi pare, più ampio: prima su tutti la condizione della donna nella società contemporanea.

Qualche tempo fa, infatti, mi era capitata sotto mano una statistica che non so quanto corrisponda a realtà ma che è francamente terrorizzante: circa il 45% delle donne adulte negli Stati Uniti vive da sola, come la protagonista del film. Ed è chiaro che, in tali circostanze, superare il dolore di una violenza simile, senza alcun tipo di sostegno, sia impresa assai ardua.

Poi, in secondo luogo, il concetto di rimozione del trauma.

La mente, quando è sollecitata da forti sentimenti, fra cui paura e dolore, tende a rimuovere il ricordo negativo, collocandolo nell’inconscio. Come accade nella sequenza finale del film a Sawyer, il ricordo non è, però, mai del tutto rimosso, come è chiaro: di fronte a una violenza sorda e, a tratti, invisibile (perché telematica e, dunque, schermata), la facilità della vittima di inciampare nuovamente  nella paura irrazionale è sempre dietro l’angolo. Non a caso, infatti, i tratti somatici dello stalker, sembrano più che altro stilizzati, quasi come se la donna fosse stata costretta ad associare a quel volto invisibile (o magari visto confusamente solo poche volte), un volto reale ed un nome, per poter giustificare a se stessa la propria paura.

Uno dei temi principali è, poi,  l’utilizzo delle nuove tecnologie, con la messa in evidenza della loro disumanità.

Non è una novità, in effetti, per il regista americano (v. Sesso, Bugie e Videotape). Eppure, come è logico, i film traggono spunto dall’epoca in cui sono girati ed è indubbio che, oggi, assistiamo ad un annientamento del concetto di fiducia reciproca, visto che gli esseri umani, ormai diffusamente, preferiscono nei loro rapporti celarsi dietro la tastiera per compensare il terrore di assumersi la responsabilità delle proprie scelte.

Sintomatica, in tal senso, la scena dell’incontro fra la protagonista e l’uomo del bar (nelle mie fantasie ho immaginato che, in realtà, fosse proprio un incontro del genere, poi terminato male, ad aver generato il trauma della protagonista) che avviene per il tramite di una app di incontri.

Due esseri umani, a cinque metri di distanza, seduti allo stesso bancone, nel medesimo bar, che non sono in grado di scambiarsi uno sguardo ed entrare in contatto senza l’utilizzo dello smartphone. Inquietante. Ma è così che accade, in effetti.

In ultimo, non meno rilevante è, di certo, la critica al sistema della nuove cliniche psichiatrici, che non fanno che riprodurre gli antichi e terribili meccanismi di alienazione del passato.

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