Insegnare la resilienza è possibile?


Finalmente le elezioni sono finite.

C’è chi è disperato per i risultati e pensa che il mondo stia per finire, c’è chi è felice come una Pasqua e pensa che il mondo stia per cambiare. Una rivoluzione, e tutti staremo meglio grazie al nuovo governo. Ahhhh *sospiro di sollievo*.

Ma oggi non voglio parlarvi di questo. Voglio parlarvi di resilienza.

Ah! Di nuovo? Ne abbiamo parlato abbondantemente nello speciale Millenials al Potere di novembre. Ma voglio darvi un update. Pare, infatti, che la resilienza si possa misurare.

Un recentissimo articolo della rivista Science, infatti, spiega come un semplice capello possa diventare un diario biologico. Nel 2015, un gruppo di biologi molecolari chiede a più di 800 ragazze e ragazzi nel nord della Giordania di fornire loro qualche capello per registrarne i livelli di stress.

Ma voi lo sapevate che si può misurare il livello di stress della persona dai capelli? La frase “ho i capelli stressati” assume tutt’altro significato…e cambiare shampoo non è la soluzione. A seconda dei livelli di cortisolo (l’ormone dello stress) presenti nel capello, si può capire a quanto stress la persona è stata esposta negli ultimi mesi.

Questa scoperta, diffusa nel 2013, è alla base dell’esperimento della biologa Rana Dajani, della Hashemite University in Giordania. In sostanza, il team della Dajani ha misurato i livelli di stress nei capelli di più di 800 giovani ragazzi e ragazze prima e dopo un programma di intervento mirato allo sviluppo della resilienza psicologica. Circa metà di questi ragazzi erano rifugiati siriani, il resto semplici ragazzi giordani. I programmi di “potenziamento” della resilienza di questi ragazzi provenivano da diverse associazioni non governative (ONG), per esempio quella della Mercy Corps, che insegnava tecniche di stress management e abilità relazionali in ragazzi a rischio tra gli 11 e i 18 anni.

Questo esperimento pone una domanda fondamentale: la resilienza può essere insegnata?

La risposta è ni, come sempre.

Prima di tutto dovremmo capire bene cos’è la resilienza, in termini concreti, e da cosa dipende. E’ la capacità di ritornare ad una salute mentale precedente all’evento traumatico oppure l’abilità di perseverare e resistere di fronte a circostanze sfavorevoli? Dipende dalla forza individuale o dai fattori ambientali? Gli scienziati non sono proprio d’accordo, e di conseguenza i “programmi di insegnamento” della resilienza sono tutti molto diversi tra loro. Ovviamente, a seconda di come definisco la resilienza, il modo in cui può essere insegnata cambia. Per esempio, se penso che dipenda dall’individuo e dalle sue qualità, mi concentrerò sull’insegnamento di tecniche particolari o su pensieri ed emozioni del singolo. Se penso che dipenda dall’ambiente, lavorerò su quello e inserirò il singolo, per esempio, in un gruppo in cui si rafforza la cooperazione e il supporto reciproco.

Un’altra domanda che sorge spontanea è: questi programmi funzionano?

Proviamo ad indovinare? Esatto, ni.

Pare che stessi programmi di intervento funzionino bene in alcuni paesi, terribilmente in altri. Qualche esempio? Qualcuno ha provato ad insegnare la regolazione emotiva (ovvero regolare le proprie emozioni, una caratteristica individuale) a ex bambini-soldato della Sierra Leone, ottenendo ottimi risultati. Lo stesso obiettivo in bambini Palestinesi ha portato ad un aumento dei sintomi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Ancora, altri ex bambini-soldato, stavolta in Nepal, venivano inseriti in gruppi politici attivi (un fattore ambientale teoricamente protettivo) con risultati positivi sulla salute mentale globale. Un’affiliazione politica offerta a bambini bosniaci otteneva l’effetto contrario.

E qui, il relativismo culturale prende il sopravvento. Non esiste, infatti, la ricetta universale per insegnare la resilienza. Bisogna prima di tutto conoscere: la popolazione che sta affrontando il trauma (studenti di un liceo americano, bambini-soldato, rifugiati, sopravvissuti ad un terremoto,…) e il tipo di trauma (guerra, sparatorie, disastri naturali, stupri,…). Ma forse, soprattutto, comprendere i valori culturali, religiosi, sociali. Solo dopo aver conosciuto e compreso il contesto, possiamo capire quali sono gli ingredienti giusti per un insegnamento di successo e agire per migliorare il benessere di chi ha subito un trauma spesso indicibile.

A questo punto vi chiederete com’è andata a finire con la ricerca della Dajani: i capelli di questi ragazzi avevano, nel tempo, meno cortisolo? Insomma, avevano forse imparato ad essere più resilienti? La risposta è…sì. I ricercatori che hanno lavorato a questo progetto affermano che, seppur moderati, i progetti diretti ai rifugiati siriani in Giordania hanno avuto effetto nel diminuire i livelli di stress e nell’aumentare le risorse psicologiche per affrontare il trauma della guerra.

C’è un ma: questo è possibile soltanto se i ragazzi sono inseriti in famiglie e comunità allargate supportive, coinvolte e accoglienti. La resilienza, e questa sì che è una ricetta universale, proviene non solo dal singolo individuo e dalle sue risorse, ma anche da famiglia e comunità.

Come dice la stessa Dajani, “Puoi partecipare ai progetti migliori del mondo, ma se poi torni a casa e la vita familiare è terribile, non potrai costruirti una gran resilienza“. E non possiamo essere più d’accordo di così.

PS. a proposito di traumi ed emergenze, ripassate cosa può fare lo psicologo dell’emergenza qui.

PPS. è uscita la terza puntata del fumetto più resiliente del 2018! Andate subito a leggerlo qui!

+ Non ci sono commenti

Aggiungi