Genesi del Princeton Offense


Disse una volta Charles Barkley, soggetto al di là di ogni gamma di bene e ogni gamma di male: “Da Princeton voglio che vengano i miei commercialisti, non il mio attacco”. Una battuta, certamente, anche legata al fatto che l’Attacco Princeton è un tanto bello da vedere quanto difficile da eseguire correttamente. Si compone di movimenti, passaggi, tagli e backdoor continui, di blocchi lontani e vicini dalla palla, di letture intelligenti e funzionali di ogni singolo uomo in campo. Ogni uomo deve esere in grado di passare, penetrare, tirare, andare a rimbalzo, e le posizioni specifiche sono perdono valore. L’allenatore, a sua volta, non guida i suoi uomini attraverso schemi  ma tramite insegnamenti su quale sia di volta in volta la soluzione da adottare.

E dagli insegnamenti arriviamo a Pete Carrill.

Peter Joseph Carrill nasce a Bethlehem, Pennsylvania, nel 1930. Già suo luogo potremmo fare numerose osservazioni, specie considerando che si tratta di un maestro che ha avuto numerosi discepoli, che ha insegnato per 32 anni (ok, gli anni di Quell’Altro erano 33, non stiamo a spaccare il capello in quattro) e che per giunta porta il nome del primo pontefice, colui che ricevette da Gesù in persona il compito di guidare la Chiesa.

Inopportune metafore cristologiche a parte, Carrill fu anzitutto promettente giocatore di basket nella sua città natale (e dagli…), tanto da finire in alto nella graduatoria dei talenti statali. Si diplomò a Liberty High School e si laureò a Lafayette, e qui avvenne l’incontro che gli avrebbe poi cambiato l’esistenza. Siccome ogni rivelazione e rivoluzione ha un padre, Carrill venne fulminato sulla via di Willem Hendrik Van Breda Kolff, dal New Jersey. “Potrà mai qualcosa di buono nascere nel New Jersey, terra vituperata dagli stessi statunitensi?” si starà chiedendo qualcuno di voi. La risposta è assolutamente “sì”. Van Breda giocò nei Knicks agli ordini di Joe Lapchick, leggenda del basket newyorchese anteguerra, per la precisione con quegli Original Celtics che sono uno dei giganti sulla cui spalla ora stiamo comodamente seduti. Con tale background alle spalle, il buon Bill non poteva che essere uno che, insomma, due cose in croce di palla a spicchi le capiva e ne sapeva. Racconta coach Dan Peterson nel suo libro del 2014 “Per me, numero 1”, che in occasione di un meeting di allenatori chiese a VBK l’impostazione del suo attacco, e questi gli rispose candidamente che si trattava, sic et simpliciter, di dare la palla da fuori al centro posizionato in post alto, il quale poi a sua volta l’avrebbe smistata fuori, a seconda di chi si trovasse nella posizione più vantaggiosa.

Una delle tappe successive di Van Breda Kolff fu Princeton. Vi rimase cinque anni, poi com’è come non è, gli fu recapitata l’offerta per sedersi sullo scranno dei Los Angeles Lakers, che non doveva esattamente essere disgustosa subito, e forse nemmeno dopo, tanto più che il roster annoverava Wilt “Mister Ventimila Donne” Chamberlain, Jerry “Logo della Lega” West ed Elgin “Segno Quando Voglio” Baylor. Al posto di quel coach dal nome olandese che poi sulle spiagge californiane due o tre soddisfazioni se le sarebbe tolte, la prestigiosa università ingaggiò Pete Carrill, il quale fino a quel momento aveva allenato alla high school, dove parimenti insegnava, e un solo anno al college, per la precisione Lehigh. Siamo pressoché certi che un suggerimento o due VBK se li sia lasciati sfuggire a proposito di chi avrebbe dovuto essere il proprio successore. La storia cambia qui.

Per capire l’impatto di Carrill e del suo gioco, forse è necessario partire dalle cause. Molti allenatori si sono ispirati al Princeton Offense, mutuandolo in toto o in parte, ma ci sono tre esempi che ad alto livello hanno vinto e convinto sposandone la causa. Rick Adelman volle il saggio con sé ai Kings andando a un baffo dalle Finals NBA, David Blatt conquistò lo scudetto nel 2006 a Treviso e l’Eurolega con il Maccabi, John Thompson III ci ha svezzato per anni fior di marmocchi pronti per il Piano di Sopra. Un trittico a cui volendo potremmo anche aggiungere Eddie Jordan, coach capace che una chance la meriterebbe ancora come titolare, specie guardando a qualche pino occupato oggidì di modesto cabotaggio, e siamo larghi di manica.

La difficoltà dell’Attacco Princeton, sottolineata dal Round Mount of Rebound nel virgolettato con cui abbiamo aperto il nostro breve approfondimento, sta nel fatto che dalla nuce di Van Breda Kolff all’offensiva vera e propria i principi restano gli stessi elencati nell’intro, principi difficili da applicare perché non rigidi, ma flessibili. Un attacco che si basa essenzialmente sulla lettura della difesa da parte di ogni incursore è un attacco che farà più fatica a carburare perché dovrà mettere a posto sincronismi tra atleti, i quali impareranno giocoforza a conoscersi e riconoscersi l’un l’altro, sul parquet, a guardarsi dentro e ad apprezzarsi, malgrado magari non si sentano nemmeno così invogliati a farlo. Come sempre, gli schemi fissi comportano sempre più immediatezza e meno complessità rispetto a quelli liberi, o comunque meno inquadrati.

Come tutto quello che è difficile, però, l’Attacco Princeton quando portato a temperatura riempie gli occhi e riscalda l’animo. Di fronte alle varie evoluzioni del Maccabi di David Blatt siamo rimasti con la medesima espressione estasiata di quando la nonna ci metteva su i VHS targati Disney. Purtroppo l’aiuto che ci viene dalle piattaforme web è relativo in quanto ad analisi del trentennale arco del coach di Bethlehem a Princeton. Poco importa, poiché è una filosofia che ha sedotto gli appassionati e vinto tra i pro.

“Nessuno è profeta in patria”, ebbe a dire una volta Quel Tale. Pete Carrill ha dimostrato che non è sempre vero.

https://www.youtube.com/watch?v=4ykLHt–w-w

 

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