Avere otto anni nell’inferno di Gaza


Shaden ha 8 anni, è nata a Gaza, non ha mai messo piede fuori dai 360 km² della Striscia e ha già vissuto sulla sua pelle gli orrori di 3 operazioni militari condotte da Israele nella più grande prigione a cielo aperto del mondo.

L’ultima, e la più cruenta, si è conclusa nell’agosto di due anni fa: operazione “Margine Protettivo”, che è costata la vita a 2.131 palestinesi (di cui 1.473 civili e 501 bambini) e 70 israeliani, di cui solo 4 civili (fonte: UN Office for the Coordination of Humanitarian Affaris – OCHA).

Durante i 50 giorni di bombardamenti e raid aerei la casa di Shaden è stata gravemente danneggiata, così come altre 6.455. 12.576 abitazioni sono andate completamente distrutte. Anche la sua scuola ha subito ingenti danni e non è l’unica: secondo l’Unicef il bilancio parla di 26 strutture scolastiche rase al suolo e altre 207 danneggiate, di cui 72 gestite dall’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi).

LA LENTA RISCOSTRUZIONE

A due anni dal cessate il fuoco Shaden ha la sensazione che il tempo si sia fermato a Gaza. Niente o poco nulla è cambiato. Solo una minima parte delle strutture distrutte o danneggiate è stata ricostruita. Perché? Perché Israele rallenta pesantemente l’entrata nella Striscia dei materiali di ricostruzione (cemento, metallo, legno), reputati utilizzabili anche per la costruzione di tunnel sotterranei utilizzati da Hamas e dalla popolazione locale per importare ed esportare merci e armi.

La bimba di Gaza aveva riposto tutte le sue speranze negli aiuti internazionali, di cui vive da anni l’80% della popolazione. E non l’aveva fatto a caso: nell’ottobre 2014 ventidue Paesi si erano incontrati in Egitto per raccogliere fondi volti alla ricostruzione degli edifici gazawi. Erano stati stanziati 5.4 miliardi di dollari per la causa. Secondo la World Bank ne è stato versato effettivamente solo il 20%. Miliardi di promesse non mantenute.

A oggi il sistema di distribuzione dei materiali edili si differenzia tra progetti delle ONG, ricostruzioni di abitazioni da parte di privati e progetti infrastrutturali di Qatar e UNRWA. Tre torrenti, ma solo nell’ultimo sembra scorrere acqua: Qatar e UNRWA beneficiano infatti di accordi bilaterali diretti con Israele.

Le ONG devono interfacciarsi sistematicamente con il Grm (Gaza reconstruction mechanism) formato da 3 soggetti: il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu. La procedura per avviare un progetto di ricostruzione è particolarmente complessa: dopo averlo presentato si seleziona una compagnia locale riconosciuta legittima da Israele. Il progetto viene iscritto nel Grm, la ditta locale chiede lo sblocco dei materiali edili necessari l’Unops ne monitora l’utilizzo. Data una tale burocrazia il rallentamento dei lavori di ricostruzione è all’ordine del giorno.

La famiglia di Shaden è in attesa dell’acqua del secondo torrente: come altri cittadini privati si è iscritta al Ministero inserendosi dunque nella lista dei donatori, quella dell’UNRWA, del Qatar e del Kuwait (i due Paesi che hanno messo sul tavolo il denaro per la ricostruzione delle abitazioni private). Entrata quindi nel sistema del Grm ora attende che le sia comunicato l’arrivo dei materiali e il distributore dove ritirarli.

La situazione per ora rimane drammatica: delle 12.576 case andate totalmente distrutte solo duemila sono state ricostruite.

L’ACCESSO ALL’ACQUA POTABILE

Avere un tetto sulla testa non è l’unica preoccupazione per Shaden. Ce n’è un’altra, forse ancora più grave, con la quale si confronta quotidianamente: l’accesso all’acqua potabile.

Al momento solo il 3% della popolazione gazawa può usufruire di acqua idonea al consumo umano. Si tratta di una minima parte di quell’85% che fa riferimento ai 150 impianti privati che filtrano l’acqua troppo salata di Gaza e la rendono “quasi” potabile: in realtà infatti il 46% di quest’acqua è impura a causa di microrganismi presenti nelle autobotti e un altro 20% a causa di serbatoi vecchi e malandati.

Lo scorso maggio il capo dell’Autorità Palestinese per l’Acque (PWA) ha lanciato l’allarme: entro fine anno la falda acquifera di Gaza non sarà più sfruttabile. Le cause: alta concentrazione di sale, infiltrazioni di acqua di mare e inquinamento. L’unica soluzione è costituita dagli impianti di dissalazione, ma raccogliere fondi non è per nulla facile. Secondo EWASH, coalizione di ong, sono 30 i progetti dedicati alla causa che sono a rischio per la carenza di attrezzatura.

CRISI ECONOMICA E PESCA

Per i gazawi acqua non significa solo acqua potabile, ma anche acqua del mare, una delle poche fonti di sostentamento, attraverso la pesca, di una regione messa in ginocchio da una grave crisi economica data dall’instabilità politica, gli interventi militari israeliani e il blocco economico entrato in vigore dal 2007. Da allora sono state vietate le esportazioni e sono calate sensibilmente le importazioni e i trasferimenti di denaro.

Una popolazione con uno dei tassi di disoccupazione più alti al mondo (43%) è vittima inoltre di un aumento delle tasse deciso dal governo di Hamas, al potere nella Striscia da 8 anni, che ha provocato un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità. L’incremento della criminalità, e in particolare furti e rapine, ne è naturale conseguenza.

Il padre di Shaden, al fine di garantire il sostentamento della propria famiglia e l’istruzione della figlia, ha scelto la via della pesca. La bimba ogni giorno prega di vederlo tornare a casa sano e salvo: le aggressioni ai pescatori palestinesi da parte della marina israeliana sono infatti in continuo aumento. Al termine dell’operazione Margine Protettivo si era concordato che l’area consentita per la pesca fosse stabilita 6 miglia dalla costa.

Le forze navali di Tel Aviv non hanno mai rispettato tali accordi: secondo le testimonianze dei pescatori le miglia, a seguito di una decisione unilaterale di Israele, sono state ridotte a 4. Spesso i militari sparano ai motori delle imbarcazioni dei gazawi sapendo che quest’ultimi non si possono permettere i costi di sostituzione. In alternativa confiscano le reti da pesca in mare. Gli attacchi si intensificano con l’avvicinarsi della stagione delle sardine, dissuadendo dunque molti pescatori a continuare l’attività.

L’ASSISTENZA MEDICA

Ammalarsi, questa una delle altre preoccupazioni di Shaden. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità durante l’ultima operazione militare sono andate distrutte 13 strutture mediche e 104 sono state danneggiate (20 ospedali, 57 cliniche, 29 farmacie, 7 stazioni di ambulanze e 4 magazzini di medicinali). A questo si aggiunge l’estrema difficoltà di lasciare la Striscia per problemi di salute: solo nel mese di marzo le richieste di permessi di uscita alle autorità israeliane sono state 2.205. Ne sono state approvate solo il 69%. Per chi ha un’età compresa tra i 16 e i 55 anni ottenere tali permessi è quasi impossibile. Gli altri devono sottoporsi a una trafila burocratica molto complessa avviabile solo a condizione che il paziente sia in possesso di una garanzia finanziaria valida del Ministero della Salute palestinese e un appuntamento già fissato con l’ospedale ospitante. A questi si aggiunge tra gli altri la necessità di ottenere il visto di entrata in Israele, pratica che dura almeno 3 settimane.

CUCCIOLO DI GAZZELLA

Acqua, cibo, assistenza medica, istruzione e abitazione: Shaden non può dare per scontato niente di tutto questo. A tenerla sveglia la notte sono però anche gli incubi, sintomi dello stress post traumatico di cui è vittima insieme al 98.3% dei bambini gazawi che hanno vissuto la fuga dai bombardamenti, l’irruzione dei soldati in casa durante la notte, che li hanno usati anche come scudi umani, il vedere la propria casa distrutta e sopravvivere con una o più disabilità. I bambini di Gaza hanno la percezione di non essere mai in un posto sicuro.

Shaden è un nome arabo, significa “cucciolo di gazzella” e deriva dal verbo “svezzare, camminare sulle proprie gambe”. Chissà forse la madre l’ha scelto nella speranza di vederla correre veloce lontano dall’inferno di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto al mondo, e costruirsi un futuro fatto di possibilità concrete, imparando a camminare appunto sulle proprie gambe.

+ Non ci sono commenti

Aggiungi